Come risolvere il problema della disoccupazione italiana in maniera rapida ed efficace: “I pubblici dipendenti sono troppo pochi” (*), bisogna ricominciare subito ad assumere!

Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe
9 min readMay 14, 2018
http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2018/05/I-pubblici-dipendenti-sono-troppo-pochi.pdf

Nel biennio 2017–2018, le oscillazioni attorno al muro dei 3 milioni di disoccupati si sono stabilmente tenute sotto il tetto monstre, ma senza che si sia mai registrato uno scostamento significativo, tale da rendere più concreto il riassorbimento degli effetti della crisi sul già disastrato mercato del lavoro italiano.

In concreto: i disoccupati a marzo 2018 — ultimo dato Istat disponibile — sono 2 milioni e 685mila, con un tasso di disoccupazione pari all’11%.

https://www.istat.it/it/files//2018/05/CS_Occupati-e-disoccupati_MARZO_2018.pdf (p. 6)

In linea di principio il problema è tutt’altro che irrisolvibile, avendo ragioni strutturali che sono ben note a chi fa ricerca senza preoccuparsi, in via esclusiva, di una qualche narrazione di partito da propagandare e difendere, anche quando va contro ogni evidenza empirica.

Do, qui, ampio risalto a uno studio accademico di Maria Luisa Bianco, Bruno Contini, Nicola Negri, Guido Ortona, Francesco Scacciati, Pietro Terna, Dario Togati (*), pubblicato sul bollettino ADAPT , n. 17, del 7 maggio 2018, che — a mio sommesso avviso — ha un solo terribile difetto: si scontra, appunto, con quella montagna di propaganda neoliberista, sedimentatasi negli ultimi decenni, in larga fascia della popolazione e, soprattutto, nella quasi totalità del ceto politico, rendendola quindi assai difficile da scalare, nella prospettiva di una sua possibile e concreta attuazione.

Il dato di fatto che non si può ignorare, infatti, è quello che vede, nell’attuale parlamento italiano, i dogmi anti-scientifici dello Stato minimo, che non può (e/o non deve) creare occupazione, del taglio delle tasse per tutti (quindi anche per i più ricchi tra i ricchi) e della P.A. inefficiente per stigma genetico, essere purtroppo, patrimonio comune praticamente di quasi tutti gli eletti, mentre la sola forza politica che esplicitamente metteva in discussione questo monolitico apparato di pensiero non è riuscita a superare la soglia di sbarramento (quel 3% che era necessario per eleggere rappresentati in assemblea e che non era nemmeno una soglia particolarmente alta, se vogliamo dirla tutta).

Contrariamente alla vulgata propagandistica — veicolata per anni da un coro mediatico che presentava ben poche voci dissonanti, comunque sempre isolate e del tutto eccezionali — cui si è accennato poc’anzi, le evidenze empiriche ci mostrano invece un quadro di sottodimensionamento strutturale della Pubblica Amministrazione italiana, che emerge con forza in raffronto coi dati degli altri Paesi:

http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2018/05/I-pubblici-dipendenti-sono-troppo-pochi.pdf (cfr. Tab. 1, p. 1).
http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2018/05/I-pubblici-dipendenti-sono-troppo-pochi.pdf (cfr. Tab. 2, p. 2).
http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2018/05/I-pubblici-dipendenti-sono-troppo-pochi.pdf (cfr. Tab. 3, ivi).

Alla luce di questi dati è chiaro che problemi strutturali dell’assetto socio-economico italiano come la carenza di domanda interna, l’alta disoccupazione giovanile e l’inefficienza della pubblica amministrazione siano, in realtà, tutti strettamente correlati e potrebbero, pertanto, essere risolti ricominciando ad investire nel settore pubblico, creando appunto nuovi posti di lavoro in tutti i settori nei quali si registrano, peraltro già da anni, ingenti carenze di organico.

«Tutti noi percepiamo quotidianamente gli effetti della carenza di personale nella PA, per esempio quando ci imbattiamo in certe complicazioni burocratiche o in lunghe liste di attese per prestazioni sanitarie.

Un caso esemplare: nel principale ospedale di Torino ci sono dei cartelli che avvisano il pubblico che aggredire gli infermieri è un reato.

È difficile pensare che la necessità di questi avvisi sia dovuta a un’eccezionale scortesia da parte del personale piuttosto che a una loro carenza numerica.

Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, comunque, c’è una coppia di dati -molto noti - che dovrebbe fugarli.

L’Italia ha la più bassa percentuale di laureati fra i paesi europei membri dell’OCDE, e al tempo stesso la seconda più alta percentuale di laureati disoccupati (dietro alla Grecia; età 25–64, dati OCDE, 2016).

La spiegazione di questo apparente paradosso non può che essere il sottodimensionamento del settore pubblico, che in un’economia sviluppata è uno dei principali datori di lavoro per laureati, probabilmente il principale.

Anche in questo caso è naturalmente possibile trovare un’altra spiegazione, e cioè che i laureati italiani si laureano nelle materie sbagliate, “lettere invece di ingegneria”; e anche in questo caso questa spiegazione conta molto poco, in quanto il tasso di occupazione passa solo dal penultimo al terzultimo posto (viene superata di poco la Spagna) se si considerano le sole classi di laurea STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)».

In ogni caso, le tabelle che abbiamo pubblicato poco sopra — e, in particolare, la terza — ci mostrano molto chiaramente come, in estrema sintesi:

«la minore occupazione dell’Italia rispetto ai paesi con cui siamo soliti confrontarci non dipende dalle caratteristiche del mercato del lavoro privato, ma dal sottodimensionamento della produzione di servizi pubblici».

Soprattutto, è fondamentale che si comprenda bene questo passaggio:

«alla luce di questi dati, recuperare il ritardo occupazionale operando sul solo settore privato appare difficilmente praticabile se non utopistico.

Sarebbe necessario infatti un livello di liberismo economico del tutto anomalo per un’economia di mercato sviluppata, e per il quale non esistono sperimentazioni valide; e che dovrebbe operare in presenza di un’amministrazione assolutamente inadeguata».

La soluzione proposta nello studio degli accademici piemontesi è estremamente interessante per la chiarezza e la precisione con cui si analizza anche il problema del reperimento dei fondi per le nuove assunzioni:

«La nostra proposta è che si ricorra a una imposta patrimoniale straordinaria sulla ricchezza finanziaria delle famiglie (e quindi non su quella immobiliare).

Questa imposta potrebbe naturalmente essere abbandonata una volta che gli effetti moltiplicativi si fossero adeguatamente manifestati.

I motivi di questa opzione sono molteplici.

In primo luogo è opportuno che il piano venga finanziato con risorse aggiuntive, e queste vanno prese là dove l’impatto negativo della loro esazione sia minimo.

Ora, la ricchezza finanziaria delle famiglie è molto elevata (e molto concentrata); nel 2017 ha raggiunto i 4200 miliardi.

Supponendo una retribuzione pari a quella di ingresso di un insegnante laureato sarebbe sufficiente un’aliquota media di circa il 5 per mille per assumere circa 1 milione di nuovi addetti, anche se sarebbe meglio ammettere una quota esente (di almeno 100.000E) e adottare aliquote progressive, comunque non superiori all’1%.

(I dati sono volutamente indicativi in quanto la politica qui suggerita deve operare su tre parametri, la retribuzione, l’aliquota fiscale e il numero di addetti, e tutti e tre devono essere oggetto di valutazione e scelta).».

Anche qui ci sono i dati empirici concreti che si scontrano con la vulgata propagandistica (“non ci sono i fondi”).

I dati macro sulla ricchezza privata accumulata sono impressionanti — 4200 miliardi in tutto, ma almeno la metà di questa ricchezza è concentrata nelle mani del 10% di famiglie più ricche — e anche facendo ricorso ad aliquote progressive minime (nella forchetta 0,5-1%, secondo la proposta in oggetto), si potrebbero reperire agevolmente i fondi per un milione di nuovi posti di lavoro, effettivi e stabili:

«le nuove assunzioni non devono essere una semplice sostituzione di personale precario».

È fondamentale infatti comprendere che, qui, non si tratta di ottimizzare le risorse umane già disponibili, appunto perché le scelte politiche degli ultimi decenni hanno ridotto all’osso il personale disponibile nella PA italiana:

«una seria riforma della pubblica amministrazione non può prescindere dalla valutazione del numero di dipendenti che è necessario assumere.

Come risulta da dati che non abbiamo riportato per brevità, in Italia occorrerebbe aumentare del 60% il numero di impiegati amministrativi della PA per averne lo stesso numero per 1000 abitanti della Germania: in queste condizioni non è che si possa fare molta strada spostando quelli che ci sono.

Né va dimenticato che l’età media dei pubblici dipendenti italiani è eccezionalmente alta, e la loro scolarità molto bassa: e per quanto lo si sposti o si investa nella sua formazione difficilmente un impiegato cinquantenne con un diploma di scuola media superiore potrà svolgere le stesse mansioni di un esperto informatico venticinquenne e laureato.

La razionalizzazione dell’uso degli addetti attuali e le decisioni sul loro aumento devono andare di pari passo.

Ma intanto nulla impedisce — se non una politica sbagliata — che si comincino a fare delle assunzioni là dove fin d’ora è evidente, o facilmente accertabile, che sono necessarie».

La misura proposta, inoltre, oltre ad abbattere finalmente il muro dei circa tre milioni di disoccupati, avrebbe effetti macroeconomici assai positivi in termini di rilancio della domanda interna e, quindi, di crescita stabile e duratura (con comprensibili effetti positivi in termini di consenso diffuso e generalizzato).

Sono esattamente questi gli ulteriori motivi che renderebbero questa proposta più che auspicabile e di non difficile attuazione:

«Un secondo motivo è che i costi di esazione sono praticamente nulli.

Ma forse il motivo più importante è che l’opinione pubblica sarebbe probabilmente favorevole, come rilevato da un’apposita indagine CATI effettuata nel 2015 e somministrata a un campione rappresentativo di cittadini con più di 45 anni (e quindi possibili contribuenti ma non beneficiari diretti del piano di assunzioni).

Il 79.9% degli intervistati è favorevole alla proposta, e questa percentuale si abbassa solo fino al 69.7% se viene esplicitato che anche l’intervistato sarebbe chiamato a contribuire.

(Per maggiori dettagli si veda il working paper n. 233, gennaio 2016, dell’Istituto Polis dell’Università del Piemonte Orientale).

Questo risultato non deve stupire: il problema della disoccupazione giovanile è universalmente sentito, e il contributo richiesto è molto basso.

È appena il caso di notare che la trasformazione di circa 20–25 miliardi di ricchezza in redditi con alta propensione al consumo darebbe una valida spinta alla domanda interna (e farebbe crescere ipso facto il PIL di circa l’1–1.5%), con i conseguenti effetti moltiplicativi cui si è accennato».

Alla luce di questi dati, è del tutto evidente insomma che solo un apparato ideologico che paralizza di fatto il Paese da circa tre decenni impedisce di affrontare una volta per tutte i nodi macroeconomici fondamentali.

E fin tanto che l’unico interesse comune a tutte le forze politiche parlamentari sarà la protezione degli interessi dei più ricchi tra i ricchi — o forse sarebbe più corretto dire dei più avidi di ricchezza (cfr. i costi di attuazione di una riforma fiscale sul modello della flat tax) — sarà davvero assai difficile invertire la china e rilanciare l’apparato pubblico che è essenziale per l’equilibrio economico di uno Stato moderno.

p.s. Due conti (molto approssimativi) dovrebbero chiarire meglio le idee, sui possibili sviluppi di questo tipo di proposta, in concreto e in prospettiva.

Ipotizziamo due sole aliquote per questa patrimoniale minimalista: 0,5% per i 2000 e rotti miliardi delle famiglie fuori dal 10% più ricco e 1% per le famiglie più ricche.

Ragionando sui dati riportati dal Sole24ore, il 10% più ricco è un insieme di 2 milioni di famiglie con patrimonio complessivo di circa 2000 miliardi.

Se la matematica non è un’opinione, abbiamo un dato medio per ciascuna famiglia del 10% più ricco di 1 milione di euro (ovviamente ci sono oscillazioni verso l’alto e verso il basso, ma ragioniamo sul dato medio).

Aliquota dell’1% su 1 milione di euro = 10mila euro.

Questo significa che se la patrimoniale in questione venisse applicata per dieci anni di fila, mediamente il 10% più ricco, alla fine del decennio si ritroverebbe con un patrimonio di poco più di 900mila euro (al netto di eventuali nuovi investimenti, ovviamente).

Per converso, se l’aliquota dello 0,5% va a impattare anche il piccolo risparmio, impatta comunque in misura appunto molto piccola.

Per la famiglia con soli 10mila euro di patrimonio finanziario accumulato, l’aliquota base è di 50 euro.

Applicata sul decennio produrrebbe un decremento inferiore ai 500 euro.

La domanda da porsi, quindi, è solo una: perché in Italia si fa cassa con l’IVA, che è l’imposta più iniqua in assoluto, e non si toccano mai i patrimoni?

La risposta è in una parafrasi di Marx: perché il pensiero della classe dominante è in ogni epoca il pensiero dominante (e quindi i più ricchi tra i ricchi riescono a far credere a tutti che gli interessi dei più ricchi sarebbero, in realtà, gli interessi di tutti).

(*) Gli autori sono tutti professori ordinari o associati di economia o sociologia, in servizio o in pensione, delle Università del Piemonte Orientale e di Torino.

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Giuseppe D'Elia
Lavoro, lavori e coscienza di classe

Giornalista e avvocato. Segue da oltre vent’anni le tematiche politiche legate ai diritti dei lavoratori. Musicista nel poco tempo che resta