Le comunità di pratica mediche

Cosa sono? Ce ne sono molte in Italia? In che modo la partecipazione di un medico alla vita di una comunità di pratica determina vantaggi assistenziali per i pazienti?

salvo fedele
Comunità & Pratica
6 min readJul 5, 2013

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Facciamo ormai parte da anni della stessa “comunità di pratica medica”. Proveremo a rispondere in questa pagina ad alcune domande che dovrebbero interessarvi.

  • Cosa sono le comunità di pratica e perché sono utili?
  • Ce ne sono molte in Italia?
  • In che modo la partecipazione di un medico alla vita di una comunità di pratica medica determina vantaggi assistenziali per i pazienti?

Molto velocemente in risposta alla prima domanda: Cosa sono le comunità di pratica e perché sono utili?

Uno dei problemi più seri dell’attuale struttura organizzativa della medicina di base e della pediatria di libera scelta è la struttura operativa di assoluto isolamento in cui operano i medici. Anche quando fanno parte di studi associati la collaborazione reale tra medici è generalmente molto bassa, probabilmente per via delle esigenze normative che finalizzano l’attività dell’associazione ad aumentare l’orario di apertura degli studi, piuttosto che ad attivare collaborazioni e continuità assistenziali vere. Quello che ne deriva è per lo più una forte disabitudine dei medici al confronto scientifico e alla collaborazione sui casi reali. A tutto questo si è cercato di rispondere in termini di obbligo a partecipare ad eventi ECM (Educazione Continua del Medico), ma ancora una volta le occasioni di dibattito vero, su problemi reali della professione si sono rivelate piuttosto scarse e, come era inevitabile, la realizzazione di eventi frontali fatti di aride conferenze accademiche non è riuscita nell’intento di recuperare i medici al confronto scientifico e alla collaborazione.

Le comunità di pratica sono una forma di associazione volontaria di medici, che per questa attività non hanno riconosciuto alcun vantaggio normativo od economico (La nostra non accetta sponsorizzazioni di alcun tipo e basa le sue attività esclusivamente sul contributo economico degli associati).

A cosa è finalizzata l’attività delle Comunità di Pratica?
Principalmente al confronto e alla collaborazione tra medici.

In che modo?
Dopo una intensa attività di training, tutti i partecipanti hanno l’obbligo di presentare problemi della vita professionale e il gruppo di pari ha l’obbligo di intervenire nella conduzione reale dei problemi offrendo la propria collaborazione individuale, con ricerche bibliografiche individuali, analisi collettive delle evidenze disponibili sull’argomento, ma anche collaborando alla costruzione di vere “mappe dei casi” in cui confrontiamo l’esperienza reale del gruppo nella conduzione di problemi della stessa classe di appartenenza.

Le riunioni seguono metodiche di attivazione di gruppo molto precise e il confronto può essere fatto di presenza o in riunioni on line in apposite piattaforme dedicate. Il confronto è spesso “vivace” ma la lunga abitudine alla discussione e al confronto ha reso sempre più raro il verificarsi di eventi critici e di incomprensioni di varia natura che caratterizzano le comunità di pratica (fatte, non dimentichiamolo di gruppi di pari, senza gerarchia formali in grado di “governarle”) all’esordio della propria esistenza.

A parte alcune riunioni allargate del network nazionale, la nostra comunità ha in programma due riunioni settimanali on line e una di presenza. Queste riunioni hanno ormai alle spalle una lunga tradizione di efficacia e a noi che partecipiamo attivamente, appare piuttosto ovvio che il patrimonio conoscitivo e di saper fare che abbiamo accumulato in questi anni è diventato davvero enorme. Si pensi al vantaggio di discutere dal vero problemi reali che occorrono in un bacino di utenza fatto da numerosi pediatri.

Passiamo adesso alla seconda domanda: ci sono molte comunità di pratica in Italia?

Purtroppo no e per varie ragioni.
L’attenzione dei media spesso si focalizza sulla necessità di aumentare il tempo di apertura degli studi, il governo attuale (ndr: siamo nell’ottobre 2012) ha introdotto per decreto la continuità assistenziale e il ruolo unico nella medicina di base.

In pratica intende “obbligare entro 180 giorni le regioni ad attivare comunità assistenziali per decreto e a costo zero”. Sembra evidente che la direzione della riforma proposta è quella di una scorciatoia normativa in cui verranno aggregati medici che non hanno nessuna esperienza collaborativa comune.

E la cosa non sembra interessare nessuno. Che continuità assistenziale potranno avere davvero medici che mettono in comune esclusivamente il proprio database elettronico di pazienti? Quella che a molti sembrava essere un’innovazione è molto verosimilmente un nuovo bluff, modello ECM (non a caso partorita dallo stesso ministro, quando aveva funzioni diverse).

Di più le comunità di pratica sono “un’invenzione” piuttosto recente e ciascuno interpreta a suo modo la natura organizzativa e la proposta di training che ne rende possibile l’attuazione. Molte esperienze hanno scambiato l’interazione superficiale che si attua nei socialnetwork, per esperienza di interazione tipiche delle comunità di pratica.

In realtà le regole che governano le interazioni e l’attuazione della collaborazione di gruppo non sono semplici e non basta partecipare a una superficiale discussione on line per far parte di una comunità di pratica.

Ci sono regole da imparare per superare le limitazioni insite nella discussione che fa seguito a un brain-storming, ci sono regole da imparare sulle modalità con cui attuare una ricerca bibliografica, ci sono regole da imparare sulle modalità con cui si valuta l’attendibilità e la riproducibilità di un articolo scientifico. Ci sono infine regole da imparare sulle modalità con cui si discute tra pari senza indurre catastrofici eventi critici all’interno del gruppo collaborativo. Ci sono infine regole sulle modalità con cui valutare la propria attività e la ricaduta reale del processo collaborativo sui propri assistiti.

L’ultima domanda: In che modo la partecipazione di un medico alla vita di una comunità di pratica medica determina vantaggi assistenziali per i pazienti?

Il discorso fatto fin qui porta inevitabilmente all’ultima domanda, quella che dovrebbe interessare più di ogni cosa i nostri pazienti. L’attenzione dei media e di conseguenza l’attenzione del governo (o viceversa, se volete) è tutta rivolta (non solo in queste ultime settimane) tutta verso la facciata superficiale del problema.

Ma qualcuno si accorgerà prima o poi che non solo il bancario ma anche il medico “accanto alle ore allo sportello” ha alcune ore da dedicare ad affrontare/studiare/confrontare con altri i problemi reali che derivano dalla sua professione?

Questa attività è tradizionalmente poco redditizia e per questo poco praticata persino in strutture che dovrebbero con facilità permettere di sviluppare questa attitudine.
Anche negli ospedali i medici hanno finito per lavorare sempre più come monadi poco comunicative.
Quando verrà posta all’attenzione dei media anche questo problema “minore”?

Per esperienza diretta sappiamo che la partecipazione alla vita della nostra comunità di pratica è stata l’esperienza più formativa della vita professionale e la ricaduta pratica che questa attività ha determinato nella nostra professione è stata a dir poco enorme.

Gli autori anglosassoni che hanno studiato i determinanti di salute nella popolazione generale affermano che subito dopo i determinanti sociali, la capacità di assumere un problema come “gruppo di lavoro” è il principale determinante in grado di abbattere diseguaglianze di salute.

Oggi che tutti siamo sempre più poveri il cambiamento “a costo zero” è pura utopia quando a suggerirlo sono le forze di “opposizione”, è pura demagogia (per non dire altro) quanto a suggerirla sono i cosiddetti “tecnici di governo”.

Auguri all’Italia, noi continuiamo per la nostra strada di sempre.

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salvo fedele
Comunità & Pratica

pediatra a Palermo; mi piace scrivere, ma cerco di non abusare di questo vizio per evitare di togliere tempo al… leggere (╯°□°)