Riflessioni di percorso

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Vecchi post @webm.org
4 min readJan 17, 2015

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Originally published at webmfacebook.blogspot.it Salvo Fedele 26/4/2009

Alcuni anni fa (non ricordo esattamente quanti, certamente molti) all’interno di Quaderni acp proposi, come molti di voi sanno, la “rubrica degli scenari clinici”, da quella esperienza è nato questo progetto comune.

In realtà ogni giorno, al nostro interno, ho utilizzato molto di più di quel bagaglio di esperienza accumulata come responsabile di quella sezione della rivista. Tornando indietro con la memoria (…) è come se non avessi mai smesso di collaborare a quella rivista e proseguito a ragionare insieme a tutti voi su cosa deve essere una “società scientifica” nell’Italia di oggi.

Il progetto, con sorpresa di molti, non è mai stato “soltanto” una forma di applicazione pratica dell’EBM. Nel progetto abbiamo sperimentato tante altre cose: forme di didattica inesistenti nel nostro paese e più consone alla “modalità di pensiero” di un adulto inserito nel mondo del lavoro (il problem based learning, il problem solving), abbiamo scoperto le diverse utility messe a disposizione dal WEB2 per realizzare (talvolta con fatica e con percorsi non lineari) il cooperative learning. Abbiamo scoperto insieme (al di là di ogni più rosea previsione) l’importanza di trasformarsi in protagonisti attivi della propria formazione. Abbiamo imparato insieme l’utilità di integrare forme di didattica residenziale con strumenti di didattica on line, imparando a distinguere l’importanza e la specificità delle attività sincrone e di quelle asincrone.

Tutto qua?
Mi rendo conto che non è poco, ma in realtà non è tutto qua.

Abbiamo negoziato con colossi dell’informatica l’acquisto di una piattaforma di meeting on line (…)
Abbiamo negoziato con colossi dell’editoria un buon servizio bibliografico (…)

Tutto qua?
Mi rendo conto che non è poco, in realtà non è ancora tutto qua.

Alcuni “terminali umani” della nostra rete ci fanno vivere come una realtà nostra drammi come quello del popolo di Israele e di quello palestinese. Abbiamo vissuto l’esperienza dei migranti che sbarcano a Lampedusa o quella dei terremotati in Abruzzo come problemi vivi e non “televisivi”. Abbiamo capito il colpevole silenzio della società contemporanea a fenomeni come quello della fuitina che non riusciamo a individuare come fenomeni concreti quando leggiamo gli appelli asettici di Lancet contro il matrimonio forzato delle adolescenti.

Senza “terminali umani” nel nostro mondo tutto rischia di essere straordinariamente incomprensibile. Solo la “vicinanza” al “messaggio” fa capire la sofferenza e trasforma un “fenomeno virtuale” in una realtà “estremamente concreta” da vivere come protagonisti del cambiamento possibile. Cosa facciamo quando discutiamo del “caso di…” o dell’aggiornamento avanzato proposto da… se non vivere come comunità quel concetto “astratto” che è l’Health outcome della formazione?
Cosa facciamo se non realizzare nella pratica l’importanza della componente affettiva, del coinvolgimento umano nella trasmissione del sapere? Cosa ne sarebbe delle nostre “comunicazioni didattiche” senza tutto questo?
(…)

Tutto qua?
Mi rendo conto che non è poco, in realtà “non è ancora tutto qua”.

Abbiamo fatto tutto questo e molto altro con un numero relativamente basso di “soci”, dimostrando che far parte di una società scientifica deve significare qualche cosa di più di un titolo da aggiungere al biglietto da visita o di un titolo con cui pavoneggiarsi all’interno delle riunioni di società. Far parte di una società scientifica nell’Italia di oggi vuol dire sviluppare capacità di direzione e lungimiranza progettuale, non semplice analisi dei wants ma attenzione ai needs. Far parte di una società scientifica vuol dire anche e forse più di ogni cosa sviluppare umanità nelle relazioni.

Perché ricordo tutto questo allora?
Lo faccio per consolarmi della nostra marginalità all’interno delle società scientifiche come all’interno della nostra realtà sociale. Lo faccio sopratutto perché dopo molti anni ho da chiedervi un favore, quello di aiutarmi nell’impresa più difficile: non permettere che questo percorso (difficile, oneroso, travagliato) possa perdere per strada altri pezzi importanti di esperienza e di amicizia.

(…)

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