Tornare
Parte prima
Gli era venuta semplicemente dalla parte sbagliata dell’Oceano. Quella specie di malattia che lo affliggeva nel momento in cui si apprestava a uscire dalla porta.
Si preparava, faceva la doccia, la barba, si infilava la camicia che aveva stirato la sera prima, i jeans e le scarpe, agguantava la borsa con calma feroce, centellinando i movimenti, concentratissimo, stretto in una morsa di nervosismo che gli sbarrava gli occhi. Poi arrivava alla porta e la maniglia gli scottava nella mano. La ritraeva con spavento misto a disgusto, come se puzzasse, anche, oltre a scottare. E restava così, la borsa tra le mani, l’espressione afflitta, davanti alla porta, per un po’. Dopodiché tornava in camera da letto, disfaceva la valigia, si toglieva le scarpe e si abbandonava sul materasso a fissare il soffitto.
Il pomeriggio lo trovavo ancora lì, attonito dal suo stesso comportamento. Provavo a parlargli, a chiedergli se gli andasse di bere una cosa e lui sorrideva lievemente, come si fa coi bambini quando insistono per giocare e mi seguiva in soggiorno, dove gli preparavo, ogni sera, un drink. Alludere in qualsiasi maniera alla sua giornata era tempo perso. “Raccontami la tua,” rispondeva e si metteva in ascolto del mio resoconto.
New York non ha mezze misure. Non ho mai visto qualcuno alzare le spalle alla domanda “Che te ne pare di New York?” È una città che ti strappa le parole di bocca, l’amore, il ribrezzo, la solitudine come la gioia. È una città che non conosce le scale di grigio, o è tutta luci, o tutta ombre. Schizofrenica, a suo modo, si nutre dell’umore di chi la abita, isterici ed euforici, perché New York, ancora oggi, checché se ne dica, contiene il mondo. Hai voglia di megalopoli, Bangkok, Pechino, Buenos Aires e il Cairo. Le ho viste tutte, ma nessuna contiene il mondo come New York. Fermati mezz’ora a guardare la gente fuori da un locale del centro e ti sfilerà davanti, il mondo, come in una passerella, su milioni di invisibili scale mobili che fanno scivolare la gente come se il pavimento fosse cosparso d’olio.
È una vastità che ti strizza il cervello e, puntualmente, qualcuno ci rimane, con la testa. I timidi, generalmente, i sensibili, gli artisti spesso, gli innamorati, New York gli si appiccica addosso come un chewing-gum alla suola. New York è una macchia che non viene più via con nulla.
Me l’aveva affidato l’ufficio per un paio di settimane, come un pacco. “Lo puoi tenere?” mi avevano chiesto. “E dove lo tengo?” avevo risposto. “Dici sempre che hai una casa grande. Solo due settimane, è un cervellone, ha bisogno solo di un paio di settimane per acclimatarsi, poi lo spediamo in albergo.”
Io una cosa del genere non l’avevo mai sentita. Che un uomo fatto e finito avesse bisogno di farsi ospitare dall’azienda per la quale lavora, da un dipendente della società per la quale lavora, era per me inconcepibile. I colleghi, specialmente le colleghe, sghignazzavano.
“È un tipo sensibile. Dice che era l’unico modo per portarlo qui, se no quello se ne rimaneva in Italia,” mi confidò la segretaria. “Te l’ha chiesto il tuo capo. Io fossi te, ragazzo, mi farei furba, un bel sorriso e un giù con un inchino.”
Primo impiego e l’italiano in casa. Il primo italiano della mia vita, per altro. Da dove vengo io manco sanno dov’è, l’Italia. Un paese lontano, bellissimo, popolato o da gente meravigliosa o da malviventi. Così se la immaginano, da dove vengo io, l’Italia. Anche se poi io stesso ho un cognome italiano, che viene da qualche parte dal lato di mia madre.
Alto, l’andatura dinoccolata, pendeva tutto in avanti come se avesse paura di pestarsi i piedi, un bell’uomo a dire il vero, la pelle del colore del cuoio e gli occhi azzurri. Un sorriso tutto storto come le sue gambe e gli occhi velati di malinconia.
Me ne accorsi al primo sguardo, appena sceso dall’aereo, che a quello gli mancava già casa.
“Ammerricano” mi chiamava, rollandosi le r in bocca come un tamburo. E giù a ridere.
Bel tipo davvero. Anche alle colleghe piaceva. Lo invitavano fuori nei locali, lo trovavano esotico. Le prime sere mi convinse a uscire, era preso da una strana euforia, New York lo ammaliava e voleva che vi prendessimo parte insieme. Io quella fase l’avevo già bella che superata, dopo due anni nella Grande Mela. Per me era già diventata una fogna incasinata, assordante, cinica e meschina.
È sempre così. Il primo periodo tutto locali e teatri, dopo un po’ si riduce al tempo infinito che trascorri sui mezzi o imbottigliato nel traffico. Avevo preso a girare coi tappi nelle orecchie. Neanche la musica bastava ad isolarmi da quel fracasso, così mi cacciavo dei grossi tappi di cera e sopra li coprivo con dei cuffioni di quando ero ragazzo.
Con lui però era tutto diverso. Rivivevo il mio primo periodo di entusiasmo attraverso i suoi occhi, la bocca spalancata sempre rivolta verso l’alto, come fanno i bambini quando piove per assaggiare l’acqua. Mi chiedeva in continuazione spiegazioni, aneddoti, puntava il dito come un ragazzino “E quello? E questo?” e io un po’ inventavo, un po’ gli dicevo quello che sapevo, che non tanto.
Lui, che parlava un inglese stentato e timido, mi ringraziava con un grosso sorriso e alzava il pollice.
Ma non durò molto.
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