Dettaglio di affresco all’interno della Concattedrale di Santa Maria Argentea a Norcia, crollata con le scosse del 30 ottobre 2016 (Fonte: Wikimedia Commons, via francesca picchi ).

Ok. E adesso?

Qualche pensiero sugli eventi sismici del 2016 nel centro Italia. Sesta ed ultima parte.

Luca Silenzi
spacelab
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5 min readNov 13, 2016

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Da queste parti siamo abituati ai terremoti. Io stesso, a 44 anni, ne ho vissuti nell’arco della mia vita almeno 5 notevoli, l’ultimo quello di quest’anno. Ma stavolta è stato diverso.

Solo chi si è affacciato di persona sull’appennino umbro-marchigiano, nei centri e nei borghi sfigurati dalle serie di scosse di agosto-ottobre 2016, ha potuto cogliere la gravità del risultato di quello che è accaduto nel giro di pochi istanti. Uno scenario bellico: strade letteralmente esplose, frane immense a bloccare arterie vitali fin dall’epoca romana. Nei borghi macerie su macerie ammassate, protezione civile e vigili del fuoco al presidio ininterrotto di paesaggi urbani ormai abbandonati.

E decine di migliaia di persone sfollate verso la costa o i grandi laghi appenninici, luoghi ritenuti più sicuri, a centinaia di chilometri di distanza da quella che era la loro casa, il loro mondo. Un mondo fatto di centri in parte o del tutto svuotati, panorami di camere da letto e soggiorni un tempo intimi esposti al vento e al gelo. Un mondo dove in tanti dalla costa tornano giornalmente, o più volte alla settimana per motivi di lavoro nelle aziende che si ostinano a funzionare, o per prestare assistenza ai pochi familiari che non intendono o non possono trasferirsi. Il risultato è un tragico sradicamento, si spera il più temporaneo possibile, di un pezzo d’Italia.

Anche per questo troppe persone, pur sane e salve e al sicuro, in quegli stessi luoghi o sulla costa, oggi sembrano morti che camminano. Per lo shock residuo che continua a tormentare i loro pensieri e il loro sonno. Per avere perso tanto, troppo, in pochi istanti.

La maggior parte degli edifici realizzati sopra le faglie che si sono riattivate nel 2016 ha permesso agli occupanti di scappare indenni e salvarsi, segno che gli interventi di miglioramento e adeguamento sismico favoriti dalle prassi normative successive al terremoto del 1997 (in particolare la L. 30 marzo 1998 n. 61 e i relativi codici di pratica) hanno avuto effetti positivi, verificabili, sul patrimonio edilizio esistente. Ma come si è detto, gli stessi edifici, sottoposti ad una serie sfiancante di fenomeni successivi, hanno riportato progressivamente ulteriori danni e quindi nuove vulnerabilità specifiche, impossibili da riparare tempestivamente, col risultato di danneggiamenti e crolli definitivi durante le scosse più intense del 27 e del 30 ottobre 2016.

In ogni caso nelle aree in corrispondenza della faglia si potrebbe stilare un bollettino di guerra. C’era un tessuto edilizio consolidato in quasi tre secoli di assenza di sismi devastanti, oggi in buona parte perduto o seriamente compromesso. C’era un’edilizia mediocre, realizzata tra gli anni ’60 e i primi ’90, che ha dato il peggio di sé e di cui sinceramente in pochi avranno nostalgia, se non come valore affettivo privato. E c’era una costellazione di monumenti, anch’essi irrimediabilmente danneggiati o sfigurati in modo grottesco, con alcune eccezioni.

Dando per scontato che verrà trovata una soluzione dignitosa e chiara per le migliaia di sfollati, per gli edifici bisognerà ripartire proprio dalle eccezioni. Dagli esemplari che sono rimasti in piedi, per ragioni pratiche e verificabili, che dovranno costituire un esempio condiviso da cui trarre sistemi coordinati di intervento. Dalle buone pratiche di ricostruzione del 1997, tanto fondamentali per la salvezza di tante vite quanto oggetto di una incomprensibile damnatio memoriae (forse perché alla retorica clickbait e alla narrazione si preferiva ancora la pragmaticità dei fatti, e tutto andò perfettamente come programmato dal Governo Prodi allora in carica).

Buone pratiche che alla luce degli eventi recenti vanno ulteriormente approfondite e potenziate, in modo da rendere gli spazi pubblici e privati ancora più sicuri e resilienti, anche se sottoposti a scosse successive e reiterate, con danneggiamenti limitati e facilmente ripristinabili, evitando accuratamente anelli strutturali deboli e crolli a catena.

Per gli edifici più rappresentativi seriamente compromessi o crollati c’è da attivare discussioni operative complesse sull’opportunità della ricostruzione, sul rispetto materiale e/o simbolico della autenticità, sulla riconoscibilità e reversibilità degli interventi, sulla compatibilità dei miglioramenti strutturali del costruito, sulla conservazione della materia. Un approfondimento a parte andrebbe fatto, coinvolgendo intellettuali e filosofi di calibro internazionale, sul tema della copia e sulla gestione oculata della sua utilità in casi eccezionali come questo.

Per l’edilizia minore la speranza è che il livello di intervento non venga equiparato all’edilizia generalista, ma che si colga l’occasione non solo di ricostruire, ma perfino di migliorare la situazione preesistente, anche sotto il profilo urbanistico-architettonico, nel rispetto dei riferimenti e della memoria di quanto è andato perduto, restaurando e valorizzando quella che era e che sarà la natura di questi luoghi. E, proprio per questo, che si abbia finalmente la forza di non ricostruire tutto, ma di fare una selezione intelligente. Aggiungendo o inserendo in sostituzione, dove possibile ed opportuno, nuove staminali di senso capaci di esprimere al meglio questo nostro tempo in un rapporto dinamico e positivo con ciò che abbiamo ereditato.

Mi auguro che i comitati tecnico-scientifici che verranno presto attivati siano capaci, programmaticamente, di non essere autoreferenziali e chiusi, ma aperti e visionari, coinvolgendo settori disciplinari diversi ed apporti intellettuali internazionali per la ricostruzione di un territorio che può essere considerato, e non da oggi, patrimonio universale.

Da queste parti siamo abituati ai terremoti. Ma stavolta le ferite sono talmente profonde che serviranno anni, o decenni, per rimarginarle. Come avviene con i grandi alberi schiantati dalla tempesta, molti rami sono caduti — quelli secchi più facilmente degli altri — e resteranno cicatrici indelebili.

Ma l’Italia, e non solo questo territorio, ha già affrontato cataclismi come quello delle scorse settimane. In passato rami nuovi sono rinati in queste occasioni, e oggi sono strutture portanti della nostra cultura e della nostra memoria collettiva. C’è voluto un po’ di tempo, e ci siamo ritrovati più avanzati, più belli di prima. Abbiamo ogni volta trovato il modo e la forza di guardare avanti. E per quanto riguarda le città e i monumenti, li abbiamo da sempre costruiti e ricostruiti.

Oggi sembra impossibile, ma continueremo a farlo. Si spera decisamente meglio.

(Novembre 2016)

<<< Quinta parte: Monumentum, monimentum

<<< Prima parte: Aftershock

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Luca Silenzi
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Spacelab founder+director | Featured in Biennale Architettura Venezia w/curatorial project State of Exception | SpacelabZero mastermind