Ogni 7 anni: le UP Series.

Giada Farrah Fowler
UP SERIES
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4 min readJul 26, 2014

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A pochi anni di distanza dal progetto di Golzow, Michael Apted (Aylesbury, 1941) — regista in seguito celebre per film come La ragazza di Nashville, che gli ha fruttato sette candidature agli Oscar, Gorky Park, Gorilla nella nebbia, 007 Il mondo non basta, Amazing Grace e Le cronache di Narnia: il viaggio del veliero, nei primi anni Sessanta, mentre lavorava come ricercatore per la Granada Television di Manchester, collaborò alla preparazione di un documentario con l’obiettivo di offrire un ritratto della società inglese dell’epoca, intervistando bambini coetanei provenienti da varie estrazioni sociali.
Furono selezionati, a tale scopo, quattordici bambini di sette anni (tutti classe 1956), quattro femmine e dieci maschi, quattro appartenenti a famiglie ricche (Andrew Brackfield, Charles Furneaux, John Brisby, Suzanne Lusk), quattro del ceto medio (Bruce Balden, Peter Davies, Neil Hughers, Paul Kligerman) e sei del proletariato (Jacqueline Bassett, Lyndsay Johnson, Susan Davis, Nicholas Hitchon, Simon Basterfield, Tony Walker).
Per il documentario, chiamato 7 Up!, fu scelta come motto una massima del
cofondatore dei gesuiti Francesco Saverio: “Datemi un bambino nei primi sette anni di vita e vi mostrerò l’uomo”.
Si voleva suggerire, in questo modo, che l’analisi dei comportamenti e delle attitudini dei bambini scelti potesse offrire uno scorcio dell’Inghilterra futura, quella del nuovo millennio.
L’idea di base aveva in principio una forte connotazione politica, nel suo tentativo di mostrare come la vita di ogni bambino fosse condizionata dall’ambiente in cui cresceva e in qualche modo già incanalata lungo un sentiero predefinito dal rigido sistema sociale inglese, caratterizzato da strutture di classe così nette da predeterminare il destino già alla nascita.
Alla regia di “7 Up!” c’era Paul Almond (1931–2015): la prima fase del
documentario è andata in onda il 5 maggio 1964 all’interno del programma “World in Action”.
Un documentario grazioso, ma non di grande interesse: le risposte dei bambini sono divertenti, ingenue e — come spesso accade — molto più acute di quanto un adulto potrebbe aspettarsi; sotto la superficie si intravedono però alcuni atteggiamenti che trasmettono una certa inquietudine, come le affermazioni conservatrici e la scelta lessicale dei bambini di classe alta, che sanno già cosa li aspetterà nel futuro, quali scuole superiori e quali università frequenteranno.
Il vero motivo per cui vale comunque la pena di soffermarsi su “7 Up!” è l’iniziativa che lo ha seguito: Apted, affascinato dal materiale raccolto, propose di rivedere il soggetto, intervistando a intervalli regolari di sette anni gli stessi bambini, per osservarne la crescita, i cambiamenti, l’abbandono o la realizzazione delle premesse iniziali imposte dalla famiglia d’origine e della società.
Poiché non si pensava che l’episodio dei sette anni sarebbe diventato il capostipite di una lunga serie, non era stato firmato nessun contratto con i bambini. Si stabilì successivamente che la loro partecipazione alle puntate seguenti fosse volontaria, che i cognomi non venissero citati e che tutto il materiale girato dovesse sottostare all’approvazione delle loro famiglie.

La proposta fu accolta, così furono realizzati “7 plus 7” (1970), “21 Up” (1977), “28 Up” (1984), “35 Up” (1991), “42 Up” (1998), “49 Up” (2005) e “56 Up” (2012): una documentazione lunga quarantanove anni. Non tutti i quattordici protagonisti presero parte agli episodi successivi: Charles rinunciò dopo il terzo episodio, alcuni comparvero saltuariamente.

Il documentario, in modo definitivo a partire dal terzo episodio, perse gran parte dell’impostazione politica, tramutandosi — da strumento di analisi sociale — in un film esistenzialista, in cui emerge il bisogno naturale di capire sé stessi osservando i propri simili posti di fronte a dubbi, difficoltà, esperienze e sentimenti universali. Ogni episodio si concentra intorno ad
alcuni temi comuni, così a 21 anni si affronta il mondo reale dopo la scuola, a 28 anni l’ambito delle relazioni sentimentali, a 35 l’arrivo dei figli, più tardi il bilancio delle proprie esperienze.
Man mano che gli episodi avanzano si ha la sensazione di assistere ad un filmato in time-lapse, che fa scorrere la vita in modo accelerato, senza dimenticare però di mostrarne l’essenza: un abile montaggio di successi, fallimenti, speranze, illusioni e disillusioni di persone ordinarie che, poste sotto alla lente di ingrandimento, sono a loro modo uniche.
Roger Ebert (1942–2013), probabilmente uno dei critici più influenti e celebri del mondo, divenuto critico ufficiale del Chicago Sun-Times nel 1967, ha definito la serie Up un uso ispirato, quasi nobile, del mezzo cinematografico; sembra addirittura che alcuni psicologi, come parte della terapia, mostrino ai pazienti il programma facendo interpretare loro le risposte e le reazioni dei protagonisti.
Per questa sua attività Apted, oltre a numerosi Emmy Awards, ha vinto il premio “John Grierson” per il suo “straordinario contributo ai documentari e per la qualità del lavoro svolto”. Grierson (1898-1972) è stato un produttore, critico cinematografico e teorico del cinema britannico, considerato il caposcuola del movimento documentaristico britannico degli anni ‘30 che in Principi fondamentali del documentario (1934) pose i fondamenti di un’estetica del cinema non-fiction, nella convinzione che il cinema possedesse la capacità di osservare gli avvenimenti della vita vera, reale e che gli attori e le scene autentiche costituissero la migliore guida per l’interpretazione del mondo moderno.
Avere il privilegio di ammirare quattordici vite in un solo racconto cercando di cogliere il fil rouge della propria è già, di per sé, un’esperienza indimenticabile. Tanto più per il fatto che, durante la visione delle Up Series, possiamo interrogarci su quesiti fondamentali: quanto siamo frutto dell’ambiente e quanto della natura? Quanto le esperienze che facciamo nel corso della vita ci trasformano? É una fortuna sapere di essere già noi stessi a sette anni o è una condanna all’immobilità?

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Giada Farrah Fowler
UP SERIES

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.