Riflessioni di design — 1x4 Co-design spreading: l’incontro connettivo che promuove l’intelligenza sociale

Emiliano Carbone
10 min readApr 12, 2019

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La quarta riflessione di questa rubrica tratta la crescita del fenomeno della progettazione partecipativa, nota con il nome di Co-design. Come evidenziato sin dall’Intro, infatti, soprattutto nell’odierno contesto capitalistico, il Co-design risulta essere una pratica di grande valore e una fonte inesauribiledi emancipazione per entrambi i settori pubblico/privato che trovano nuove configurazioni grazie agli incontri “connettivi”, il co-design gli mette a disposizione. Come hanno giustamente sottolineato i ricercatori D. Sangiorgi, L. Patricio e F. Zurlo, circa la conferenza ServDes tenutasi a Milano nel 2018, lo stimolo progettuale, soprattutto il Service design, tende a rendere “la conoscenza del design tangibile e trasferibile e costruisce capacità progettuali in organizzazioni e comunità.” E ancora: “questo in pratica restituisce il completamento di numerosi toolkit, l’organizzazione di iniziative di formazione e l’istituzione di laboratori di design/innovazione”. [ndr] Pertanto, da un punto di vista organizzativo, oggi il design assume la forma di migliaia di persone (interne ed esterne a un’organizzazione) che dovrebbero raggiungere efficacia, creatività e coerenza tra i loro compiti, al punto che tutti i loro scambi — che come sottolineato all’interno della precedente riflessione, dovrebbero anche fare i conti con priorità etiche — siano efficaci e producano innovazione. Ed è importante riconoscere che il crescente uso di pratiche di progettazione partecipativa, è giustificato dall’impatto costruttivo e abilitante che ha sulle persone. Difatti, esso impiega un’immaginazione culturale e interpretativa (anche se non è l’unica possibile) come medium partecipativo e prospettico, per raggiungere scopi di rafforzamento e trasformazione di un’organizzazione. Considerando ora, il contesto in cui le organizzazioni cercano di affrontare questa “sfida” di innovazione, ovvero un dinamismo socio-tecnico strutturale, il co-design risulta importante per la sua capacità di intercettare e promuovere chiari fenomeni in atto: in primo luogo, l’urgente richiesta di partecipazione delle persone nei processi di trasformazione e cambiamento; in secondo luogo, la democratizzazione generale dell’innovazione e del design grazie alla diffusione di approcci guidati dagli utilizzatori di prodotti/servizi. Infine, in questa vasta gamma di attività progettuali, oltre all’etica e alla cultura del design, viene attivata una competenza ben più profonda, estremamente umana: la collaborazione. Come sostiene il sociologo Richard Sennett nel suo lavoro seminale, le capacità collaborative “emergono nel contesto della sperimentazione e della comunicazione condivisa”. Difatti, esplorando le pratiche di co-design, la collaborazione, l’apprendimento e la sperimentazione, possono essere nutriti e accresciuti, in un’ottica partecipativa e allargata. E allo stesso tempo, queste attività richiedono impegno, volontà e sforzi psicologici e sociali.

Facendo un passo indietro, vale la pena divagare su cosa ostacoli la capacità di un’organizzazione di progettare se stessa in tali relazioni contestuali. Ci sono certamente dozzine di questioni da prendere in considerazione, dalla capacità di comprendere sufficientemente i problemi, all’effettiva implementazione dei progetti. Allora, fuori dalle organizzazioni tutto è amplificato dalla complessità e influenzato da migliaia di cambiamenti ambientali, ma dentro spesso si rimane “fissati” in mantra manageriali ultra-ortodossi che offrono una percezione rassicurante del controllo e della conservazione, a scapito dell’autocritica (faticosa e spiacevole), ma necessaria per sviluppare ed evolvere ulteriormente. Ciò si traduce in stagnazione a livello aziendale, dove i dipendenti sono immobilizzati all’interno di tratti, tendenze e obiettivi indifferenziati. Riprendendo ancora l’analisi di Sennett, egli identifica nell’attuale morfologia del lavoro le cause che minano le capacità cruciali del fare le cose insieme: “le relazioni superficiali e i deboli legami istituzionali rafforzano l’effetto silos: le persone fanno i loro affari (…) in particolare non entrano in relazione con quanti (…) svolgono altri compiti”. In breve, sia la disaffezione che i dogmi, aumentano il bisogno dei dipendenti di trovare un nuovo compenso tra la divisione specializzata del lavoro e la vena creativa/spirituale necessaria per mantenerlo vivo, e così l’impatto psicologico di tale condizione organizzativa comincia ad emergere. L’Io, infatti, si afferma rifiutando l’Altro, concentrandosi solo sui suoi scopi e opponendosi al Logos come pratica umanizzante. A tal riguardo, il design — o persino l’innovazione — a causa dei confini tra le persone, dati dall’istituzione di compiti predeterminati e l’assoluta assenza di esercizio critico, è quasi impossibile da sviluppare. Allo stesso modo diventa davvero complicato essere individui “agili”. Come ha giustamente sottolineato Hegel, in queste condizioni il lavoro non è più un “appetito tenuto a freno”. Non è più ciò che assegna dignità e valore alla vita, realizzandola da un punto di vista sociale e civile. Allora come riaccendere la vitalità e lo spirito creativo necessari per qualsiasi organizzazione? Enzima per la trasformazione dell’habitus? Questa non è solo una questione di puro marketing ma di re-interpretazione delle proprie tradizioni e della propria storia, e così anche di una profonda ri-progettazione. E proprio su questo argomento (già ampiamente attraversato nella riflessione sul problem-framing) come suggerito dai ricercatori M. Venus e D. A. Stamm, è responsabilità del management mantenere sempre viva la “continuità” tra vecchio e nuovo. Nel loro lavoro chiave Visions of Change as Visions of Continuity, spiegano che “la causa della resistenza al cambiamento è che i dipendenti si identificano e si prendono cura delle loro organizzazioni. (…) Una leadership di cambiamento efficace deve enfatizzare la continuità — ciò che è centrale, il “chi siamo”, è come un’organizzazione verrà preservata, nonostante l’incertezza e i cambiamenti all’orizzonte” [ndr].

Di fronte a uno scenario così delicato, non è sorprendente che all’interno delle organizzazioni gli ingranaggi dell’innovazione, e più in generale della creatività — le cui radici Latine, come ci ricorda Ron Carucci, “descrivono un’esperienza sociale, comune” [ndr] — spesso rimangono bloccati, e pertanto devono trovare nuove configurazioni. Dunque, quando si prendono in considerazione le pratiche di Co-design, incrociamo ovviamente diversi ordini di problema. Tuttavia, ritengo che la crescita individuale (il progetto di sè) e il recupero cruciale dello stare insieme (il progetto di tutti) siano i più importanti. Nonostante questa riflessione non sia dedicata esclusivamente alla capacità progettuale di per sé, essa rimane centrale e la si può comprendere attraverso il molto attuale discorso sul “design thinking”. Un’altra intera riflessione è stata dedicata all’argomento, che ho cercato di descrivere come modalità esplorativa: un “intersezione indisciplinata costituita da una mentalità, un insieme di strumenti e una serie di attività; spazi e esplorazioni specifiche che, del resto, si combinano nella soggettività dell’esploratore”. Quindi, riguardo questo aspetto, tra i diversi rapporti che mettono in evidenza i temi d’impatto della diffusione del design a livello organizzativo, la popolare indagine del 2016 condotta dal DMI è un adeguato punto di partenza: la relazione sottolinea che le imprese facenti leva sul design superano in performance il mercato del 211%. È della massima importanza riconoscere che un’organizzazione non può essere salvata dalla bancarotta con alcune sessioni di workshop. Dal report si evincono infatti, due fattori essenziali piuttosto utilizzate dalle aziende di successo: in primo luogo, il design è posto strategicamente al centro di ogni attività. In secondo luogo, le metodologie di progettazione sono state adottate per 10/15 anni. Ora, come il professor Roberto Quaglia sostiene riguardo il suo Leadership Management Framework, gli “approcci più innovativi di oggi hanno proposto uno spostamento di focus: ovvero di coinvolgere l’energia delle imprese verso lo sviluppo delle persone, piuttosto che attraverso soluzioni meccanicistiche top-down” [ndr]. Pertanto, un utilizzo etico delle odierne pratiche di co-design dovrebbe mirare a qualcosa di più dei risultati immediati, cioè a un cambiamento culturale, in particolare a uno orientato alla capacità progettuale, in modo da aumentare la resilienza aziendale. Come dimostrato da un altro rapporto sull’impatto sviluppato dal Service Design Network all’interno del settore Pubblico, il primo fattore di successo rappresentato dai partecipanti intervistati alle attività di Co-design è il “cambiamento culturale” all’interno dell’organizzazione. Ancora una volta, le persone che esperiscono la cultura del design sembrano aumentare il loro potenziale di sviluppo e la propria capacità progettuale. Studi come il The Design Ladder, sviluppato dal Danish Design Center e lo Educational Design Ladder, sviluppato da Cara Wrigley e Kara Straker, forniscono un’ulteriore panoramica sui vari livelli di intensità e attività del design, rispettivamente in termini organizzativi e meta-cognitivi. Così gli incontri connettivi possono riabilitare e recuperare la creatività, come esperienza sociale cruciale nel fare le cose insieme, scolpendo i comportamenti dei partecipanti dall’esterno.

Il rovescio della medaglia è l’altra abilità, qui considerata essenziale, di stare insieme nel faticoso viaggio di dare significato alle potenzialità nascoste di un’organizzazione. Lo scopo del co-design può essere concepito come quello che il filosofo Peter Singer chiama l’allargamento del “cerchio del Noi” [ndr], in cui “noi” indica la capacità di riconoscere l’alterità che può “agire” e “pensare” nel nostro stesso modo. In questo senso, come sottolinea la ricercatrice Daniela Selloni nel suo Codesign for Public Interests Services, le pratiche partecipative sono una sorta di “spazio ibrido” in cui “ispirazione, esplorazione, discussione e deliberazione” vengono attuate e potenziate per collegare i diversi linguaggi e dispositivi delle persone. Questa condizione si apre a una domanda cruciale sulle relazioni tra le persone, e come spiega lo psicoanalista italiano Massimo Recalcati: “la vita è vita umana perché animata dalla trascendenza del desiderio come desiderio dell’Altro”. Seguendo il suo punto di vista, l’importanza della presenza dell’Altro emerge come mezzo di trascendenza: infatti, il potere dello scambio differenziante tra due individui può raggiungere la consapevolezza delle loro condizioni attuali e potenziali. L’opportunità di mettere in pratica le attività di co-design consente di costruire connettivi in cui le persone possono incarnare e riparare gesti, rituali e intelligenze (come quella emotiva del Goleman). Anche Jacques Derrida, pensatore molto stigmatizzato, ha sottolineato la vivente e vivificante “venuta dall’altro” come corpo estraneo che viola la nostra potente illusione di appartenenza e identità e ci mostra il senso nascosto, il significato non ancora dispiegato. Ora, come per queste tacite dinamiche tra comportamenti umani che possono essere sollecitate dagli incontri connettivi, vale la pena chiedersi anche quale dimensione etica dovrebbe essere considerata (e.g. la molto cara al design inclusività), andando oltre quella della Phronesis affrontata nella precedente riflessione. Difatti, i designer non solo agiscono come mediatori o facilitatori, ma anche come veri “influencer” di tale fatica progettuale, e come giustamente suggerito dai ricercatori Meroni, Selloni e Rossi nel loro Collaborative design framework: “come il designer interagisce con gli altri partecipanti influenza la loro consapevolezza del processo” [ndr]. Lo studio spiega anche la condizione problematica in cui i partecipanti possono incorrere, se non “adeguatamente abilitati a contribuire” [ndr]. Qui, il ruolo essenziale giocato dalla trasparenza e dalla pluralità della comunicazione è evidente. Usando le parole del professore Jorge Frascara: “la comunicazione unidirezionale è immorale e inefficiente, e promuove una passività che a lungo andare indebolirà la nostra civiltà” [ndr]. A tal proposito, parafrasando il lavoro fondamentale di Ezio Manzini, il designer dovrebbe puntare a una “conversazione dialogica” supportata dalle metodologie progettuali, attraverso cui raggiungere gradualmente diversi risultati collaborativi, dalla “visione condivisa” alla “decisione effettiva”. Per confermare ulteriormente la validità di questo approccio, può essere menzionata una riflessione cruciale di Ricard Rorty. Data l’infinita ricerca della felicità delle persone, Rorty sottolinea l’importanza di un “progresso orizzontale verso un commonwealth cooperativo mondiale” [ndr]. In tale visione, nessuno occupa posizioni privilegiate, ma ci sono solide fondamenta che cercano “accordo”. Così le pratiche di co-design diventano un’arte dell’incontro nella naturale “competizione” tra i valori delle persone. E come sottolineato nel Big Mind di Geoff Mulgan, il co-design aumenta l’intelligenza collettiva, cioè una vera “risorsa sociale” che può raggiungere l’intreccio causale della realtà e quindi, una consapevolezza sistemica.

In conclusione, alla luce di una cooperazione così vitale, le attività di Co-design possono essere pensate come un’esperienza esplorativa dell’umanità, capaci d’innescare l’intelligenza collettiva per il raggiungimento di un accordo. E avendo esperienza dell’alterità in termini sia spirituali che fisici, attraverso il peculiare “touch” della modalità progettuale, diventa l’essenza di questi incontri connettivi. Pertanto il recupero di questa attitudine umana potrebbe essere letto secondo diverse prospettive: si può vedere sia da un punto di vista esistenziale ovvero all’interno di una dimensione relazionale in cui, attraverso l’Altro, i nostri progetti sono umanizzati e acquisiscono un significato. Ciò è coerente con il pensiero di Lacan sul desiderio: “il desiderio è sempre ciò che è inscritto come ripercussione dell’articolazione del linguaggio a livello dell’Altro”. Quindi, è estrovertendo il proprio Io che la collaborazione viene attivata e prende forma. E così, è necessario riconoscere le particolarità delle persone che sono sopra ogni cosa uniche e irriducibili. Il Logos, trova qui la sua missione più profonda e naturale: rendere le cose semioticamente riconoscibili, trasmettere un universo di significati, un ordine simbolico coerente, in modo da abbracciare ciò che sta di fronte a noi. Come da un punto di vista cognitivo, questo confronto tra le persone che possono sfruttare la conversazione dialogica, la razionalità e le abilità empatiche (da non confondere con quelle della sympatheia), implica il completamento di un accordo pragmatico sulle conseguenze da raggiungere. Viceversa, dubbi su queste grandi capacità umane alimentano prospettive solipsistiche contro la varietà di valori, e cioè il relativismo. Come sosteneva Karl Popper nel Mito della cornice, è in condizioni di diversità che un dialogo può generare nuove forme, attributi e qualità, non è vero? Così come dal punto di vista socioculturale, le attività di Co-design, come spazio per la connessione, la critica e l’ideazione, diventano un vero corpo intermedio (quasi svanito nella nostra dialettica politica) a causa del loro meccanismo di mediazione. Una condizione fondamentale, riconosciuta da diversi autori e descritta come “social technology” (Liedtka), “socio-material assembly” (Selloni), “boundary object” (Star) e “design device” (Ehn). Ancora una volta, come Sennett ci ricorda, quando facciamo insieme, cioè quando si ha un’autentica esperienza di collaborazione, quest’ultima diventa “un fine in se stessa, non un semplice strumento per altri fini”. E questo è più fruttuoso in termini di capacità umana. In questo controverso periodo storico, gli incontri connettivi dovrebbero essere legittimati come veri momenti di attivismo e proattività contro quella strana entropia organizzativa menzionata all’inizio di questa riflessione. Per creare e motivare l’impegno e la passione delle persone attorno ai nuovi traguardi stabiliti dal dinamismo odierno, sono necessari spazi per sforzi esperienziali, comunicativi, e immaginativi, al fine di rafforzare la nostra capacità di sviluppo, le nostre teorie, e stimolare scatti verso nuovi obiettivi comportamentali.

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Emiliano Carbone

Senior Business Designer @ Tangity — NTT DATA Design studio #design #research #complexity (views are my own)