Un’immagine notturna del Cerro Tololo Inter-American Observatory in Cile, da cui viene svolta la Dark Energy Survey. Credit: Reidar Hahn/Fermilab

10/10. L’istruttiva storia dei pianeti che non erano pianeti ma raggi cosmici

Un quadro generale in continuo, rapidissimo cambiamento

Michele Diodati
GruppoLocale

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In questa perenne alchimia tra i voli della fantasia (scientifica) e i dati disponibili, le nostre conoscenze sull’universo crescono però di continuo e il quadro d’insieme che la scienza ci presenta cambia di conseguenza. Meno di due secoli fa, nel 1835, il filosofo positivista Auguste Comte scriveva a proposito delle stelle:

Non riusciremo mai a studiare, con nessun metodo, la loro composizione chimica o minerale.

Ignorava che da più di vent’anni il tedesco Joseph von Fraunhofer aveva inventato lo spettroscopio, lo strumento che avrebbe consentito ai moderni astronomi non solo di determinare l’esatta composizione chimica delle stelle (o almeno delle loro atmosfere), ma di scoprire persino invisibili pianeti in orbita intorno a esse, grazie allo studio delle variazioni della velocità radiale, reso possibile dalla misurazione dello spostamento delle righe spettrali scoperte da Fraunhofer.

Lo spettro solare ottenuto dallo scienziato tedesco Joseph von Fraunhofer nel 1814. Credit: Jonathan Tennyson, “Astronomical Spectroscopy: An Introduction to the Atomic and Molecular Physics of Astronomical Spectra”, World Scientific, 2010

Neppure un secolo fa, all’inizio degli Anni ’20, quando già le fotografie di Eddington dell’eclisse solare del 1919 avevano provato la correttezza della relatività generale di Einstein e la meccanica quantistica era in pieno sviluppo, gli astronomi pensavano ancora che la Via Lattea fosse il limite e il contenitore dell’intero universo. Ci volle il Grande Dibattito tra Harlow Shapley e Heber Curtis per minare questa certezza, che cadde soltanto quando, nel 1925, Edwin Hubble provò, grazie alla scoperta di una variabile cefeide in Andromeda, che quella grande nebulosa non si trovava all’interno della Via Lattea, ma ben oltre i suoi confini. Ma da allora, in meno di un secolo, la nostra conoscenza della dimensione dell’Universo osservabile è cresciuta vertiginosamente, passando da 300.000 anni luce, che era il diametro della Via Lattea calcolato da Shapley, ai 93 miliardi di anni luce stimati oggi tenendo conto dell’espansione dell’universo.

Nel frattempo è aumentata anche l’età dell’universo o, per meglio dire, la nostra stima di essa. George Gamow, un grande fisico e cosmologo del secolo scorso, tra i primi teorizzatori del Big Bang, nel 1940 attribuiva all’universo un’età di 2 miliardi di anni (“The Birth and Death of the Sun”, New York 1940). Quindici anni dopo, lo stesso Gamow aveva portato l’età dell’universo a 3 miliardi di anni (“The Creation of the Universe”, New York 1955). Oggi, 60 anni più tardi, grazie ai dati forniti recentemente dal satellite Planck, abbiamo potuto spostare l’età dell’universo ben oltre i confini temporali supposti da Gamow, fissando (per ora) il limite a 13,8 miliardi di anni.

Un grafico che illustra la distribuzione delle galassie più vicine alla Via Lattea, tratto da “The Birth and Death of the Sun” di George Gamow (1940). La distanza di Andromeda era stimata da Gamow in 680.000 anni luce. Oggi sappiamo, invece, che supera i 2 milioni di anni luce

È straordinario come la nostra immagine dell’universo si modifichi rapidamente dopo ogni nuova scoperta. L’idea di un universo stazionario cedette il passo con Hubble all’idea di un universo in espansione. Dopo la scoperta, negli Anni ’90, dell’attenuazione delle supernovae di tipo Ia con la distanza, che valse il Nobel nel 2011 a Perlmutter, Schmidt e Riess, l’espansione si tramutò d’improvviso in espansione accelerata. Era chiaro ormai che radiazione elettromagnetica e materia barionica non bastavano più a spiegare la totalità della massa/energia che pervade l’universo. Fu necessario introdurre i concetti di materia oscura ed energia oscura.

La conseguenza di questi rapidissimi rivolgimenti è che l’attuale immagine dell’universo plasmata dalle conoscenze e dall’immaginazione scientifica sfida le doti di intuizione di cui l’evoluzione ci ha dotati. E più astronomi e cosmologi diventano bravi a elaborare modelli teorici e congetture sulla base di indizi osservativi minuscoli, complessi, ambigui, più diventa difficile stabilire il confine esatto tra ciò che realmente sappiamo dell’universo e ciò che, invece, crediamo di sapere.

Principio di indeterminazione, stringhe, dimensioni nascoste, schiuma quantistica, materia oscura, energia oscura: modelli teorici della realtà che hanno un fondamento scientifico più che valido, ma poca o nessuna corrispondenza nella nostra intuizione. Non è una critica alla scienza, anzi, ma solo una constatazione. Sembra, per certi versi, che il progredire della capacità scientifica di creare modelli matematici per descrivere l’universo fisico e le sue leggi sia destinato a scavare un solco sempre più profondo tra i concetti usati allo scopo e ciò che l’esperienza comune e l’esperimento sono realmente in grado di mostrarci.

C’è una questione filosofica che aleggia su queste considerazioni, ovvero: cosa intendiamo esattamente con “reale” e “realtà”, quando attribuiamo questo status a concetti-limite che sfuggono completamente all’osservazione e persino alla nostra intuizione?

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Michele Diodati
GruppoLocale

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.