Cultura della terapia, cultura della paura.

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«Voglio arrivare alla nozione di controllo sociale, Peter. Alla necessità che ogni stato sovrano ha di esercitare un controllo sul comportamento dei propri cittadini, per tenerli tranquilli e renderli ragionevolmente docili. Per farli guidare sulla carreggiata destra della strada, o sulla sinistra, se quello è il caso. Per far sì che paghino le tasse. E naturalmente sappiamo che il controllo sociale lo si gestisce meglio attraverso la paura
«La paura», disse Evans.
«Esattamente. Per cinquant’anni, le nazioni occidentali hanno tenuto i loro cittadini in uno stato di paura costante. La paura del diverso. La paura della guerra nucleare. La minaccia comunista. La Cortina di Ferro. L’Impero del Male. E all’interno del blocco comunista, è avvenuto lo stesso, ma al contrario. La paura dell’Occidente. Poi, improvvisamente, nell’autunno del 1989, tutto finì. Sparì, svanì. Si volatilizzò. La Caduta del Muro di Berlino ha lasciato un vuoto di paura. La natura aborre i vuoti. Qualcosa doveva riempirlo.»
Evans si accigliò. «Sta dicendo che l’emergenza ambientale ha preso il posto della Guerra Fredda?»
«È un dato di fatto. Naturalmente, ora ci sono il fondamentalismo radicale e il terrorismo post 11 settembre a spaventarci, e questi sono certamente motivi reali per cui aver paura, ma non è questo il punto. Il punto è che la paura ha sempre una causa. La causa può cambiare nel corso del tempo, ma la paura è sempre con noi. Prima del terrorismo avevamo paura dell’inquinamento prima di questo c’era la minaccia comunista. Il punto è che malgrado la causa specifica della nostra paura possa cambiare, questa non ci abbandona mai. La paura pervade la società in ogni suo aspetto. Continuamente.»
Cambiò posizione sulla panca di cemento, dando le spalle alla folla.
«Si è mai reso conto di quanto sia sorprendente la cultura della società occidentale? Le nazioni industrializzate forniscono ai propri cittadini sicurezza, salute e benessere. Nell’ultimo secolo, l’aspettativa media di vita è aumentata del 50 %. Eppure la gente moderna vive nella paura. Hanno paura degli stranieri, delle malattie, del crimine, dell’ambiente. Hanno paura delle case in cui vivono, del cibo che mangiano, della tecnologia che li circonda. Sono terrorizzati in particolare da cose che non possono vedere — germi, sostanze chimiche, additivi, inquinanti. Sono timidi, nervosi, scontrosi e depressi. […] Tutto sta andando al diavolo, e dobbiamo vivere tutti nella paura. Incredibile. Come ci è stata instillata questa visione del mondo? Perché, sebbene immaginiamo di vivere in nazioni diverse — Francia, Germania, Giappone, Stati Uniti — in realtà, viviamo nello stesso stato, lo Stato della Paura. Com’è stato possibile tutto questo?»
[M. Crichton, Stato di Paura, Milano, Garzanti, 2005, pp. 524–525.]

In Kynodontas i genitori hanno un pesante segreto da nascondere: c’è un quarto figlio, la cui sorte ed esistenza effettive non ci vengono svelate; ai tre ragazzi viene raccontato che egli ha vissuto per molto tempo oltre la palizzata del giardino ed è stato ucciso dal massimo carnefice nemico dell’uomo… il gatto. Per respingere il gatto bisogna imparare ad abbaiare come dei cani da guardia: così i genitori confezionano una narrazione, un mito, che funga da esempio e faccia tabula rasa di ogni desiderio di fuga. Identificano un nemico, che unisca i figli, funzioni da collante per la famiglia e separi il dentro dal fuori.

Non è azzardato estendere la metafora del gatto a diversi concetti che riguardano la nostra società molto da vicino: xenofobia, omofobia, intolleranze che nascono per la paura dell’altro, dell’ignoto, di ciò che è esterno ed estraneo al nostro microcosmo. Il fratello ucciso dal gatto è quello che, valicando la palizzata, ha osato infrangere i confini segnati dalla tradizione dettata dai genitori: è per questo condannabile, e per questo è stato punito.

Esistono due tipi di paura: quella naturale è un’emozione primaria di difesa che emerge nell’individuo quando si trova a fronteggiare pericoli considerati superiori alle proprie possibilità di difesa; la paura indotta proviene invece da un agente esterno, quando vengono creati nemici da combattere o situazioni in cui la persona si sente impotente.

C’è un famoso studio dello psicologo comportamentista statunitense John Broadus Watson, datato 1920, nel quale viene scelto come soggetto sperimentale il piccolo Albert, di nove mesi. Watson constata che il bambino non ha alcun timore per i topi, ma che è spaventato dal rumore improvviso prodotto dalla percussione di una barra d’acciaio fuori dalla sua vista. Nell’esperimento, ogni volta che veniva mostrato un topo ad Albert, una barra d’acciaio veniva percossa con un martello. Bastarono sette ripetizioni perché il bambino sobbalzasse alla sola vista del topo e cominciasse a strillare e ritrarsi.
Per il comportamentismo, le associazioni stimolo-risposta stanno alla base della personalità dell’individuo e si stabiliscono unicamente sulla scorta dell’esperienza. Senza discutere sulla validità dell’esperimento, che si fondava su dati empirici molto scarsi, Watson ha comunque evidenziato come sia possibile sollecitare una risposta emotiva negativa condizionata dalla paura.

Quali sono le esperienze passate che ci conducono a formare nella nostra fantasia un’immagine dell’altro che ci fa ricordare il rumore della bacchetta di acciaio di Albert? Chi sta manovrando la bacchetta? Per quale motivo?
La paura indotta non è un fenomeno recente: ogni epoca ne porta molte con sé. Essa aumenta quando si inculca nelle persone un senso di angoscia, facendo credere loro che non siano in grado di difendersi e spingendole per contro, a prendere individualmente provvedimenti o a chiedere che vengano presi.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la difesa personale con le armi è un diritto sancito dal Secondo Emendamento della Costituzione, datata 1787; ad oggi sono circa dieci milioni le armi legali in Italia, con circa quattro milioni di famiglie in possesso di almeno una pistola.

La paura è una passione d’attesa, di attesa di un male, che genera nell’individuo un particolare bisogno di sicurezza. Per questa ragione diviene una condizione affettiva particolarmente importante nella sfera politica e sociale. È evidenza quotidiana come all’interno della propaganda politica, dei dibattiti, dei comizi elettorali, dei talk show, il tema della sicurezza ricopra un ruolo dominante.
Davanti ai nostri occhi, ogni giorno, il figlio uccide la madre, lo straniero stupra la ragazza, la setta uccide una giovane, i bulli picchiano un bambino, un terrorista piazza una bomba nella stazione in cui poco prima avevamo sentito l’annuncio vocale che ci invitava a non lasciare i nostri bagagli incustoditi. Molti ambientalisti, operatori della salute, criminologi, consulenti psicologici sostengono che il mondo stia diventando sempre più pericoloso.

Vengono generati stereotipi di pericolo allo scopo di inserire l’altro all’interno di una categoria accomunata da tratti specifici, riconoscibili ed imprescindibili.
Paradossalmente, a questa strategia, il “nemico” individuato, risponde in modo analogo, con la stessa strategia, ancora una volta con la politica della paura: l’arabo è per l’occidentale il capro espiatorio dei mali che affliggono il mondo, l’occidentale lo è per l’arabo.

Nel 1954, Sherif e collaboratori elaborarono una teoria riguardante il conflitto tra gruppi grazie ad un originale esperimento: essi organizzarono un campo estivo al quale parteciparono 22 bambini di undici anni, suddivisi in due squadre, le “Aquile” e i “Serpenti a sonagli”, che presero parte a delle attività competitive. Gli autori ebbero modo di osservare che i ragazzi svilupparono un forte attaccamento nei confronti del proprio gruppo, stabilendo norme interne e scegliendo un leader; vennero amplificate le differenze esistenti tra noi e loro e nacquero soprannomi dispregiativi nei confronti dei membri del gruppo considerato ormai avversario; con il passare dei giorni e con il susseguirsi delle competizioni, la svalutazione del gruppo esterno divenne ancora più marcata, culminando in aggressioni fisiche e reciproci atti di teppismo. Mentre le ostilità tra i due gruppi aumentavano, cresceva la coesione all’interno del singolo gruppo.

L’enfasi sulle identità, le giustapposizioni “noi” vs. “loro”, “dentro” vs. “fuori”, quando vengono radicalizzate, producono effetti noti — intolleranza, pregiudizio, razzismo — spostando lo scontro sul piano reale, aprendo il conflitto, in un circolo vizioso che alimenterà ancora di più la politica della paura. In un clima del genere è comprensibile che l’opinione pubblica non reagisca in maniera distesa e che chieda maggiore chiusura da parte di stati più autoritari.

Ma la salute dei diritti civili di una società è misurabile, paradossalmente, con la possibilità stessa che il pericolo possa sussistere, che l’attentato terroristico possa accadere: solo una società totalitaria controllata in ogni suo nodo può, teoricamente, prevenire qualsiasi tipo di attacco e questo può avvenire soltanto allargando a dismisura la rete del controllo, a scapito delle garanzie civili e politiche.

Secondo la teoria dell’identità sociale gli individui hanno bisogno di considerare in termini positivi il proprio concetto di sé, il quale deriva in parte dalle loro identità sociali, cioè dall’appartenenza a uno o più gruppi sociali. L’autostima di un individuo dipende, infatti, non solo dai suoi successi personali, ma anche da quelli dei gruppi di cui fa parte. I confronti sociali sono contaminati dalla tendenza della persona ad andare a caccia di elementi che differenzino in positivo il gruppo di appartenenza cercando, attraverso la svalutazione dell’outgroup di valorizzare implicitamente l’ingroup.

Il conformismo, il voler far parte del gruppo delle Aquile o di quello dei Serpenti, è un fenomeno spontaneo di ricerca dell’accettazione, così come una strategia di controllo sociale. Oggi esso è veicolato da e attraverso una molteplicità di agenti esterni all’individuo: la famiglia, il gruppo, la comunità, la società, le religioni, la politica, l’economia, il marketing, il consumo, la cultura dominante, i mass media, la moda, lo spettacolo, la pubblicità. Attraverso le conferme di tutti questi agenti, cerchiamo di raggiungere una sicurezza interiore che ci rassereni sul fatto di appartenere ad un gruppo e, soprattutto, di possedere un accettabile dal gruppo. Maggiori sono le aspettative che riponiamo all’esterno, più percepiamo la mancanza di questa sicurezza e più diventiamo schiavi dell’insicurezza.

Sin dall’inizio della modernità l’esercizio della soggettività umana è stato associato alla capacità di modificare la realtà esterna. L’esperienza stessa del dolore viene mediata in modo soggettivo attraverso la percezione, la cognizione e la riflessione. Nella tradizione illuminista l’individuo non era un soggetto passivo, schiacciato da una realtà esterna vista come oggettiva ed inalterabile, ma era in grado di intervenire su di essa per plasmarla e modificarla. Da quando quindi l’idea di un soggetto attivo ha lasciato il posto a un’immagine passiva, precaria, incerta, vulnerabile, continuamente alla ricerca di sicurezza e di conferme?

La convinzione che il mondo sia diventato un luogo estremamente pericoloso, sul quale l’umanità ed addirittura la politica stanno perdendo il controllo, il timore dei disastri ambientali, delle armi di distruzione di massa, della tecnologia impazzita, hanno contribuito a creare una sensazione permanente di crisi, secondo una visione che Margaret Thatcher ha opportunamente tratteggiato con il granitico slogan TINA, There is No Alternative. La filosofia del no future del punk primevo datato 1977, che rifiuta in blocco il passato e nega la possibilità di un futuro, non è più urlata e sbandierata, ma è stata interiorizzata.

Gli attacchi al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 hanno rappresentato un punto di svolta nella storia della civiltà occidentale e sono stati percepiti dall’opinione pubblica come l’angosciante sfida alle proprie identità e quotidianità.
É stato evidenziato come il Presidente Bush ed i suoi collaboratori abbiano fatto ampio uso nelle proprie dichiarazioni di termini come threat, terror, evil-doers, danger, fear, per spiegare ai cittadini americani le caratteristiche assunte dalla realtà contemporanea; le preoccupazioni del popolo americano riguardo all’avvenire proprio e dell’intero paese sono state indirizzate e veicolate verso una prospettiva da cui analizzare la realtà [cfr.: P. L. Dunmire, Preempting the future: rhetoric and ideology of the future in political discourse, “Discourse & Society”, Vol. 16 n. 4, 2005, p. 507].

Sin dall’antichità la paura è stata oggetto dell’analisi di molti pensatori e con Tucidide (V sec. a.C.) ha iniziato a formarsi l’idea che essa sia elemento dell’azione politica; tale riflessione ha assunto carattere centrale nelle riflessioni di Hobbes, Montesquieu, Alexis de Tocqueville, ha preso progressivamente forma, è stata variamente interpretata e strumentalizzata, arrivando fino ai nostri giorni, in cui il timore naturale o indotto nei confronti di una minaccia comune, reale o costruita, può fungere da catalizzatore per i singoli individui, stimolando il bisogno di protezione e guida.

Questo forte e pervasivo senso di instabilità ed incertezza ha trasformato il “correre un rischio” nell’“essere a rischio”, concezione che

parte dal presupposto che gli individui possano operare delle scelte e decidere se esplorare e sperimentare. Sono soggetti attivi, che possono, con le loro azioni, realizzare risultati positivi e modificare le circostanze. Invece il concetto di essere a rischio inverte il rapporto fra mondo ed esperienza, assegnando alla persona un ruolo passivo e dipendente. L’essere a rischio non riguarda quello che fai, ma chi sei. É un’ammissione di impotenza, almeno in rapporto a quel rischio. É un’oggettivazione della vulnerabilità individuale. La persona definita a rischio vive una condizione di permanente vulnerabilità […].
L’essere a rischio diventa un attributo intrinseco dell’individuo.
[F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 161]

La profonda vulnerabilità è, secondo il sociologo anglo-ungherese Frank Furedi, prodotto e alimento di quella che egli definisce cultura terapeutica, un modo di pensare diffuso che influenza la percezione generale dei fatti della vita, tramite il quale si incoraggiano le persone a vedersi come impotenti, bisognose, slegate e ad esternare la propria fragilità interiore.

In Il nuovo conformismo: troppa psicologia nella vita quotidiana, Furedi fa notare come la tendenza a reinterpretare in termini emotivi non solo le situazioni di difficoltà, ma anche le esperienze quotidiane, sia evidenziata dalla straordinaria diffusione delle definizioni psicologiche e dei termini terapeutici. Citando uno studio Factiva condotto su 300 giornali inglesi, Furedi fa notare come la parola self-esteem (autostima), nel 1980 non riscontrò nemmeno una ricorrenza, nel 1986 apparse tre volte, nel 1990 il numero salì a 103 e nel 2000 venne rilevato il dato sconcertante di 3.328 ricorrenze; una crescita analoga si riscontra per i termini trauma, stress, sindrome e counseling, quest’ultimo ancora più indicativo dello stato delle cose, poiché in un mondo in cui predomina l’ethos terapeutico, l’autorità di cui gode il counseling diviene sconfinata.
Si è progressivamente confermata l’idea che chiunque debba affrontare un evento necessiti dell’intervento di un consulente terapeutico: questa convinzione prende piede nell’impresa, nella gestione delle risorse umane; riguarda tutti i settori della società, polizia, servizi di emergenza e servizio militare inclusi; coinvolge qualsiasi età, compresa la primissima infanzia; viene estesa all’istruzione, al sistema di giustizia, all’erogazione di servizi assistenziali, alla politica.

Il diffondersi del gergo terapeutico non riveste interesse esclusivamente linguistico: i cambiamenti formali del linguaggio rivelano nuovi atteggiamenti e nuove aspettative culturali. Quello che sostiene l’autore è che, più di quanto si sia trasformata realmente la società, siano cambiate le immagini culturali legate ai vari concetti.

Catastrofi ed eventi eccezionali vengono oggi spiegati in funzione del loro impatto emotivo e mentale sulle persone direttamente ed indirettamente coinvolte e spesso si tende ad esagerare la fragilità delle persone rappresentando il trauma che ovviamente ne deriva come una cicatrice emotiva indelebile, una condanna a vita. Furedi ricorda, a questo proposito, il caso di una delle tragedie più devastanti che hanno segnato la Gran Bretagna: il disastro di Aberfan del 21 ottobre 1966, nel quale una scuola di un villaggio nel Galles del sud, venne inghiottita dal crollo di una miniera di carbone, provocando la morte di 116 bambini e 28 adulti. I parenti non intentarono azioni legali, i bambini sopravvissuti ripresero ad andare a scuola due settimane dopo la tragedia; un anno più tardi si osservò che sembravano perfettamente normali ed adattati. Una simile reazione oggi sarebbe impensabile, la scelta di far tornare a scuola i bambini così presto verrebbe criticata fortemente, il tentativo di superare autonomamente i postumi della tragedia verrebbe considerato sbagliato, nella convinzione che le vittime non siano in grado di uscirne da sole.

L’autore contrappone a questo esempio di understatement tipicamente britannico, una serie di successivi eventi, interpretati in ottica terapeutica, nei quali la prospettiva di danni emotivi a lungo termine viene presentata come dato di fatto.

Cambia l’immagine del trauma e vengono inserite al suo interno le tipologie di evento più disparate: il parto viene visto come un evento emotivamente traumatico, al quale seguirà per una grande percentuale di donne lo stress post-parto. All’altro estremo dell’esistenza, il lutto non viene più descritto come un dolore da sopportare, ma come un processo, che conviene affrontare con un supporto terapeutico; le manifestazioni esteriori di un tempo vengono abbandonate per passare all’elaborazione del lutto.
Oggi il disturbo post-traumatico da stress viene associato ad una miriade di eventi che provocano turbamento emotivo. Le dipendenze non si affrontano soltanto con i diretti interessati, ma con i codipendenti, partner e familiari delle persone dedite ai comportamenti d’abuso.

Cambia l’immagine della criminalità: se nei primi anni ottanta le preoccupazioni per la legalità e l’ordine pubblico riguardavano in particolare le azioni criminali violente (guerre di droga, bande armate, rapine), la cultura contemporanea è più coinvolta ed affascinata in caso di perversioni emotive, originate da impulsi interiori (serial killer, pedofili, maniaci sessuali, stalkers).

I problemi sociali, politici, economici, culturali vengono interpretati sempre più spesso in un’ottica psicologica, come inadeguatezza personale, in termini di emozioni individuali non elaborate e non gestite; il “determinismo economico e sociale di ieri è stato soppiantato da una nuova e ben più elementare forma di determinismo ‘emotivo’ secondo la quale l’individuo vivrebbe in una condizione generale di deficit.
Questa visione, fa notare Furedi, è sostenuta dal filone teorico dell’intelligenza emotiva [cfr.: D. Goleman, L’intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1996], secondo cui la riluttanza a conoscere i propri sentimenti e la scarsa consapevolezza di sé, il cosiddetto analfabetismo emotivo, sarebbero responsabili del disagio individuale e sociale: è necessario secondo questa visione provvedere all’educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi e delle paure. In questa ottica, è alla crisi emotiva collettiva che si possono far risalire le tossicodipendenze, le violenze coniugali, gli abusi infantili, la delinquenza giovanile, la crescente incidenza della depressione anche in età giovanile.

É allarmante che tanti cerchino sollievo e conferma in una diagnosi. La trasformazione della malattia in una forma di identità è indice dell’avvenuta istituzionalizzazione di un regime di autolimitazione, segnala che la premessa fatalistica del sé vulnerabile influenza il comportamento di una porzione significativa della società […]. Oggi la terapia è più uno strumento di sopravvivenza che un mezzo per raggiungere l’illuminazione. Non promette la guarigione, ma un permanente stato di convalescenza. Più che a superare i problemi, aiuta ad accettarli. La terapia, come la cultura più vasta di cui fa parte, insegna a stare al proprio posto. In cambio offre i dubbi benefici della conferma e del riconoscimento.
[F. Furedi, Il nuovo conformismo, p. 35]

La cultura terapeutica non promuove, come si potrebbe pensare, il narcisismo dell’autorealizzazione, bensì l’autolimitazione, il senso diminuito di sé, di individui che, una volta persuasi di essere fragili, deboli, incapaci di gestire gli eventi, saranno i primi a chiedere soccorso.

In questo modo la cura di sé si trasforma in procura, nel senso giuridico del termine: un contratto con il quale il soggetto conferisce ad un altro la rappresentanza, ovvero il potere, di agire in nome e per conto suo.
Il nuovo conformismo di cui parla Furedi è una forma di acquiescenza passiva e di sottomissione, una forma di eteronomia più comoda ed accogliente rispetto alla fatica dell’autonomia.

Questa è un’altra storia di adolescenza senza uscita: la consapevolezza di sé è un obiettivo della maturità adulta. Conoscere sé stessi è indubbiamente importante ed il desiderio di autenticità è estremamente comprensibile in una società moderna, in cui la frammentazione ed i repentini cambiamenti inducono a chiedersi continuamente chi siamo e qual è il nostro posto, ma riconoscere le proprie emozioni, i propri sentimenti e le proprie paure, non significa venerarli o esserne ossessionati.

Una società fondata sulla paura, sulle preoccupazioni per la sicurezza, plasmate, condotte, stimolate e talvolta suscitate dalla politica o da gruppi intenti a soddisfare i propri interessi, che fa leva sulla stabilità emotiva individuale, difficilmente può mantenersi unita a lungo.

Il potere galvanizzante della paura e del timore per uno, cento, mille nemici comuni è destinato ad affievolirsi col tempo, trasformandosi in irritazione verso l’incertezza, in desiderio di normalità.
Come ricorda Wolfgang Sofsky,

la paura non è durevole, perché non si può vivere durevolmente con la paura.
[W. Sofsky, Rischio e sicurezza, Einaudi, Torino 2005, p. 114]

La società evolve, lascia il suo stato di adolescenza, diventa adulta soltanto se costruisce la propria identità sulla comunanza di aspirazioni e di principi, sulla speranza nel futuro, su idee positive atte a costruire un discorso collettivo, e non sulla comune ansia.

Qualunque tipo di paura si stia affrontando, dalla paura di crescere, a quella di invecchiare, di morire, alla paura di un nemico, a quella di ciò che a noi è più distante e sconosciuto,

imparare a sentire l’angoscia è un’avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi immerso in essa; chi invece imparò a sentire l’angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta.
[S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Firenze, Sansoni, 1942, p. 199]

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Giada Farrah Fowler
KYNODONTAS / ADOLESCENZA SENZA USCITA

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.