Flessibilità dei valori

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L’autorità, i miti, le credenze, la gerarchia, oltre a metodi di strumentalizzazione, sono anche importanti garanti metasociali e metapsichici che rappresentano grandi matrici della simbolizzazione.

Viviamo in una società “di massa”, ma affondiamo le radici in una società contadina che per secoli ci ha offerto un preciso panorama di riferimenti morali e di ideali strutturanti: la famiglia, il lavoro, l’onore, la patria, l’onestà, la fedeltà coniugale, la religione, la carità, l’amor proprio, il prestigio.
É il mondo che viene rimpianto da Pier Paolo Pasolini, che lo descrive come un universo transnazionale finito di colpo dopo quattordicimila anni di vita, in cui gli uomini non vivevano l’età dell’oro, ma — espressione mutuata da Felice Chilanti — l’età del pane ed in cui la famiglia era il nucleo minimo dell’economia e della civiltà religiosa; essa si trasforma oggi nello specimen minimo della civiltà consumistica di massa.

Quando avvengono trasformazioni che fanno vacillare questi garanti, la società si destabilizza, permettendo il subentro della contraddizione, del paradosso, dell’incertezza nei confronti delle ideologie, la maturazione della sfiducia nelle istituzioni e di sensazioni di non appartenenza, con gli effetti manifesti che possono derivarne, tra i quali la difficoltà a strutturare un’identità stabile, la nascita di nuovi idoli, di idee onnipotenti e fondamentalismi, la crescita di una nuova cultura fondata sulla virtualità, il rifugio nel conformismo, la costruzione di microcosmi artificiali.

Da tempo ci si interroga su come e quanto questi profondi mutamenti sociali influiscano sulla struttura dell’apparato psichico, dal momento che la realtà psichica nasce e si estrinseca proprio attraverso i simboli, gli oggetti della cultura.

É frequente oggi sentir parlare di sgretolamento dei valori, con particolare riferimento alle nuove generazioni: soprattutto i media, che ragionando per induzione traggono con facilità da episodi sporadici generalizzazioni improprie, ci trasmettono un’idea di una gioventù in crisi, inserita in una società in declino costante, dominata dalla caduta della moralità e del senso civico, egoista, individualista e neoedonista; questo implicitamente impone una visione univoca del giovane, quando ovviamente la realtà è inevitabilmente più articolata e complessa. Le opinioni ed i contributi su questo tema sono vari e discordanti.

Il sociologo francese Raymond Boudon in Declino della morale? Declino dei valori? analizza una parte della grande mole di dati rilevati dalle indagini mondiali sui valori condotte da Ronald Inglehart, che si riferiscono a sette Paesi occidentali (Stati Uniti d’America, Canada, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Svezia).
Egli sostiene che sia la sociologia popolare che quella accademica abbiano enfatizzato in modo esasperato la perdita dei valori, fornendo visioni iperboliche che sono state prese in carico e alimentate dal mondo dei media e della politica, traendo conclusioni che vanno a screditare completamente le opinioni disfattiste: i giovani dai 16 ai 24 anni credono nell’autorità, nella distinzione tra bene e male, nei doveri dei genitori nei confronti dei figli e viceversa, nella democrazia, manifestando il desiderio di una maggior partecipazione attiva, che vada a sostituirsi alla concentrazione del potere nelle mani dei rappresentanti politici. Boudon desume quindi l’impressione che i giovani abbiano gli stessi riferimenti degli adulti, declinati verso un maggior individualismo e tendenzialmente razionalizzati: nell’universo della morale e delle credenze si va a selezionare ciò che sembra più plausibile e si lascia cadere ciò che è meno coerente e giustificato.

Umberto Galimberti descrive uno scenario decisamente opposto: i giovani stanno male, il nichilismo penetra nei loro pensieri e svuota di significato le loro passioni, sono indifferenti, analfabeti emotivi, mancano di prospettive e progetti; la socializzazione non è che un misero residuo di ciò che rimane dell’egoismo, dell’arrivismo, dell’indifferenza del prossimo, con il quale al massimo ci si urta o accanto al quale si passa nella più completa noncuranza; il livello di autoconsiderazione è basso, la sensibilità è fragile, l’inerzia è provocata da un’eccessiva esposizione agli influssi della televisione e l’unica preoccupazione è procurarsi un’incredibile quantità di tempo libero per assaporare l’assoluta insignificanza del loro peso epocale.

Un po’ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po’ di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica di quell’individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che — stante l’inaridimento di tutti i legami affettivi — non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro.

Indipendentemente dalla visione che preferiamo abbracciare, è indubbio che dall’epoca industriale del paradigma fordista-taylorista all’epoca post-industriale, caratterizzata dai mutamenti repentini ed incessanti, dall’incertezza, dalla perdita di punti di riferimento fissi, le trasformazioni sociali ed individuali sia nel mondo adulto che in quello dell’infanzia e dell’adolescenza siano state profonde.

É in tempi impensabili, nel 1935, che lo storico olandese Johan Huizinga denunciò, con Crisi della civiltà, lo stato di decadenza nel quale versava il mondo occidentale e dedicò al puerilismo un capitolo illuminante, incredibilmente attuale:

Il puerilismo è l’atteggiamento di una società che si comporta più infantilmente di quello che le concederebbe il grado del suo discernimento, di una società che invece di allevare il ragazzo innalzandolo a uomo, abbassa sé ai comportamenti della puerizia. (…) La permanente pubertà si distingue per una mancanza di dignità personale, di rispetto verso gli altri e le altrui opinioni, per un’eccessiva concentrazione sulla propria personalità. L’universale indebolimento del giudizio e della critica crea un suolo propizio a questa condizione. La massa si trova a suo perfetto agio in uno stato di semilibera esaltazione. É uno stato che, grazie al rilassamento di quelle inibizioni che derivano da un forte convincimento morale, può, da un momento all’altro, diventare pericolosissimo.

Oggi ci troviamo nell’epoca dell’incertezza biografica, caratterizzata dalla reversibilità delle scelte, dall’enfatizzazione del presente rispetto ad un futuro sempre meno prevedibile e ad un passato che sbiadisce, dalla dilatazione dei tempi di passaggio, in un gioco complesso di anticipazione e posticipazione delle esperienze, dall’acquisto di centralità da parte della dimensione biografica a scapito di quella storico-istituzionale.

Si sente parlare spesso attualmente del concetto di flessibilità, vero e proprio leitmotiv imposto dai nostri tempi.
In The corrosion of character, tradotto in L’uomo flessibile, Richard Sennett, sociologo e scrittore statunitense, analizza le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita dell’individuo e la passività con cui l’uomo sta vivendo questa epoca di grandi trasformazioni, senza auspicare però nostalgici ritorni al passato:

Limitarsi a rimpiangere la decadenza del duro lavoro e dell’autodisciplina di un tempo — per non parlare delle buone maniere, del rispetto per gli anziani e di tutte le altre gioie del passato — significherebbe indulgere a un fastidioso sentimentalismo. La serietà della vecchia etica lavorativa caricava un grosso peso sull’io dei lavoratori. Si cercava di dimostrare il proprio valore attraverso il lavoro e, nella forma dell’“ascesi intramondana”, come la chiamava Max Weber, il ritardo nella gratificazione poteva diventare una pratica profondamente autodistruttiva.

Sennett cita, tra gli altri, il saggio De hominis dignitate (La dignità dell’uomo) di Giovanni Pico della Mirandola: partendo dal mito della creazione, il filosofo immagina che Dio, al momento della creazione dell’uomo, decise che quest’ultimo non avrebbe avuto una natura definita o un ambiente preciso in cui vivere, affinché egli stesso, completamente libero di scegliere, trovasse autonomamente la propria collocazione.

Né determinata sede, né un aspetto tuo peculiare, né alcuna prerogativa tua propria ti diedi, o Adamo, affinché quella sede, quell’aspetto, quelle prerogative che tu stesso avrai desiderato, secondo il tuo volere e la tua libera persuasione tu abbia e possieda. La definita natura degli altri esseri è costretta entro leggi da me stabilite, immutabili; tu, non costretto da nessun limitato confine, definirai la tua stessa natura secondo la tua libera volontà, nel cui potere ti ho posto. Ti ho collocato al centro dell’universo affinché più comodamente, guardandoti attorno, tu veda ciò che esiste in esso. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu, quasi libero e sovrano creatore di te stesso, ti plasmi secondo la forma che preferirai. Potrai degenerare verso gli esseri inferiori, che sono i bruti, potrai, seguendo l’impulso dell’anima tua, rigenerarti nelle cose superiori, cioè in quelle divine.

Vengono così lasciate completamente aperte per l’uomo le possibilità di crescere, migliorare, trasformare il mondo e se stesso: la dignità dell’uomo secondo Pico della Mirandola non consiste nel suo essere, ma nel suo divenire.
Posizione questa riscontrabile anche in Sartre, il quale afferma che l’essere umano è l’unico ente nel quale l’esistenza viene prima dell’essenza, cioè l’uomo innanzitutto esiste poi, attraverso le sue azioni condotte nella completa libertà, è responsabile della costruzione della sua essenza.

Ma come è possibile raggiungere traguardi, formarsi, costruire la propria essenza e sentirsi “liberi” se ci si sente socialmente invisibili, disorientati, confinati in un limbo, se la precarietà e provvisorietà di ogni sistema di riferimento paralizza la prospettiva del divenire?

Utilizzando le parole di Sennett:

Com’è possibile mantenere degli obiettivi a lungo termine in una società a breve termine? In che modo possono essere conservati dei rapporti sociali durevoli? Come può un essere umano sviluppare un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e frammenti? (…) Il capitalismo a breve termine minaccia di corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra di loro e li dotano di una personalità sostenibile.

La generazione precedente possedeva la sicurezza di una scansione temporale della propria vita lineare, razionale, con risultati cumulativi raggiungibili passo dopo passo ed una definizione dei ruoli di tipo piramidale. Sennett fa notare che il gap tra quella generazione e l’attuale è costituito soprattutto dal cambiamento dell’organizzazione del tempo, dalle moderne reti organizzative, caratterizzate dalla frequenza di rapporti occasionali che tendono a svuotare di significato legami sociali forti come la lealtà e la fedeltà: questi sono gli elementi che — più della globalizzazione o dell’avvento delle nuove tecnologie — vanno ad influire in modo diretto sulla vita emotiva delle persone, anche fuori dall’ambito lavorativo. Bisogna dimostrare le proprie qualità, ogni giorno, poiché ci si sente eliminabili e sostituibili; l’assunzione del rischio viene illustrata come un meccanismo naturale e imprescindibile, gli esiti sono imprevedibili.

In queste condizioni la personalità si corrode; è impossibile rispondere alla domanda chi ha bisogno di me?

In questa ottica, viene veramente da pensare che la libertà elargitaci dai nostri tempi sia un dono terribile, che ci sia bisogno di ricorrere ad un Inquisitore pronto a programmare le nostre esistenze!
O piuttosto, mettendo da parte l’ironia, che ci sia una pressante necessità di fare un passo indietro — o meglio, in avanti — riappropriandosi delle responsabilità, del lungo termine, ristabilendo legami di impegno e fiducia, sul luogo di lavoro, in famiglia, nel rapporto con gli altri, divenendo meno accondiscendenti nei confronti della frammentazione.

Acrobata e giovane equilibrista, Pablo Picasso (1905)

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Bibliografia
P.P. Pasolini, 8 luglio 1974, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino e Marzo 1974, Vuoto di Carità, vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini, entrambe in Scritti corsari, 4^ ed., Milano, Garzanti, 1993.
F. Chilanti, Gli ultimi giorni dell’età del pane, Milano, Mondadori, 1974.
R. Inglehart, M. Basanez, A. Moreno, Human Values and Beliefs: A Cross-Cultural Sourcebook, The University of Michigan Press, 1998.
M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, Mohr, 1922; trad. it. Economia e società, Torino, Ed. di Comunità, 1999.
U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 12.
J. Huizinga, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1962, p. 109.
R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, 1999.
Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, ed. a cura di G. Tognon, Brescia, 1987.

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Giada Farrah Fowler
KYNODONTAS / ADOLESCENZA SENZA USCITA

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.