66 posti dove (non) sono stata e dove (non) voglio tornare

Kara Lafayette
M E L A N G E
Published in
4 min readFeb 23, 2023

“La dolcezza del perdono lo fa piangere, un pianto in cui si sciolgono anni di disperazione, di umiliazione e di solitudine. Dimentico, protetto, a poco a poco piangendo si addormenta. Ma non appena si è addormentato, sogna, e nel sogno torna alla sua povera camera d’affitto; rassegnato, mangia il pranzo freddo che gli hanno lasciato sul tavolo, poi si corica nel suo lettino stretto, come uno che si coricasse in una tomba.” (da: La statua)

Quest’oggi, col titolo, cito Nicola Laurenza (per approfondire correte a leggere questo articolo, questo e poi questo).

da: Il Pronzone

Per parlarvi de Lo stereoscopio dei solitari (1972) devo fare una capatina nel mio passato e rinominare proprio il signorino Laurenza. Un giorno (o molto più probabilmente, una notte), il signorino mi mandò l’estratto di un racconto, dal titolo I conigli.

“Un giorno però intravidi tra i miei cavoli un gruppo di coniglietti bianchi, dal muso roseo, intenti a mangiare le foglie basse. In breve, non è il caso di raccontare la prevedibile storia: i conigli si sono mangiati tutta la verdura del mio orto e anche quella degli orti intorno, e continuano a riprodursi a una velocità che oserei dire straordinaria.

Ciò che non era prevedibile, invece, è l’immensa felicità, la pace deliziosa che in seguito a questa invasione di conigli si sono impossessate, sia del mio animo, sia dell’animo dei miei vicini, ormai rassegnati al sacrificio delle loro culture”. (da: I conigli)

Fulminata da quelle poche frasi, pretendo di leggere tutto il racconto. In qualche modo molto avventuroso, riesco a leggerlo e penso (anzi, sicuramente lo dico anche ai passanti sconosciuti) che sia uno dei racconti brevi più belli che abbia mai letto. Lo leggo e lo rileggo in continuazione, beandomi della capacità extraterrestre di narrare una storia compiuta in una manciata di parole. Solo un genio può essere in grado di farlo e sicuramente non è una rarità, non esageriamo, ma è altrettanto vero che non è da tutti. Poi succede che dimentico di aver pensato di recuperare la raccolta col suddetto racconto, passa qualche anno e un giorno, cercando libri da inserire nella mia wishlist, mi passa davanti agli occhi proprio l’antologia incriminata e mi dico: dai, è ovvio che se tra un attimo ti svolazzasse in faccia una falena, tu prima di tutto urleresti e scapperesti cambiando residenza, ma soprattutto di dimenticheresti nuovamente di questo libro. E insomma, lo compro e lo leggo immediatamente.

J. Rodolfo Wilcock con gatto

J. Rodolfo Wilcock era molto amico di Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Cesares e di Silvina Ocampo. Mi immagino le conversazioni. Era soprattutto mattissimo, oltre che un narratore sublime. Per scrivere tutti i 66 racconti flash e farne un vero trattato di cosa significhi essere dei reietti, bisogna sapere il mestiere. E sapere che essere weird è, prima di tutto, poco, se non per nulla, piacevole. Wilcock diceva, a proposito de Lo stereoscopio dei solitari, che: “… è un romanzo con settanta personaggi principali, che non si incontrano mai”, ed effettivamente la sensazione è questa: un unico universo narrativo, in cui nascono e finiscono un sacco di storie.

Ogni storia è, appunto, a sé e contiene più personaggi sgradevoli, bizzarri, grotteschi, come lo è il mondo in cui vivono. Luoghi surreali, impossibili se non nell’immaginazione sfrenata dell’autore, il quale vi ci scaraventa al suo interno senza tante cerimonie. È un lungo viaggio nell’irreale che ha la forza di apparire così tangibile da lasciarti a disagio. Incontriamo creature mitologiche, esseri dalle forme umane e animali, alieni, perfino atomi. Ogni particella vivente ha qualcosa da dire. Probabilmente di spiacevole, o doloroso, o assurdo, o ironico, ma certamente inconsueto e imprevedibile. Il primo racconto, La strada, è spaventoso. In poche righe ti catapulta in un postaccio, dal quale vorresti scappare senza voltarti, ma insomma, non puoi, non puoi più lasciare quel mondo disumano. Devi sapere e quindi ci resti. Scruti dallo stereoscopio questi mostri e può capitare che in qualcuno ti ci riveda. O che in qualche modo qualcuno lo capisca, o lo compatisca. Wilcock non vuole in nessun modo giudicarli, vuole solo che esistano. Se poi decidiamo che siano degli esseri deplorevoli in un mondo squallido, o delle argute metafore sulla natura umana (o entrambe le cose), sta a noi.

“La vita è sempre uno scherzo: Mör ha però il vantaggio di poterlo apprezzare tutto insieme, di un solo colpo d’occhio cioè, senza fastidiosi altibassi di speranze e delusioni. Ormai è libero e padrone di se stesso; come i morti, ha la sua vita tra le mani.” (da: Nello spazio)

Io ho la mia opinione, e cioè che è proprio grazie all’assenza di giudizio che possiamo vedere le cose per ciò che sono, nella loro umana, solitaria, tenera e divertente miseria.

“Riempita di nuovo la vasca di acqua chiara e accuratamente salata, Merullo saluta il riccio e risale la scala scivolosa della grotta, felice, schiavo come tutti del proprio mostro”. (da: Il riccio)

Eternamente grata al signorino Laurenza per quel messaggio notturno.

______________________________________________________________

Pagina autore
Kara Lafayette Instagram

--

--