Queneau tra letteratura e matematica

Senza cadere nella trappola della metafora superficiale

Marco Fulvio Barozzi
Through the optic glass
10 min readJan 15, 2017

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Raymond Queneau (1903–1976) è stato uno dei più prolifici ed eclettici scrittori francesi del secolo scorso. La sua vivacità intellettuale ha dato luogo a un’opera molteplice, con una produzione originale, talvolta giocosa e, per certi versi, inclassificabile. Una delle costanti che è possibile ravvisare nella sua opera è l’interesse per la scienza e, più in particolare, per la matematica. In molti hanno commentato l’aspetto combinatorio dei Cent mille milliards de poèmes (1961), libro singolare composto da dieci sonetti in cui ognuno dei rispettivi 14 versi, aventi le stesse rime e la stessa costruzione sintattica, è ritagliato su una striscia di carta. Facendole scorrere in modo casuale, I versi possono essere combinati fino ad offrire 10^14 sonetti, appunto centomila miliardi.

Nel 1960 Queneau, attratto dalle possibilità offerte dalla combinatoria e dalla matematica in genere alla genesi letteraria, con un gruppo di scrittori e matematici tra i quali François Le Lionnais e Claude Berge, aveva fondato l’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle). Il termine “potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all’interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato.

Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che si aggiunge a quelle già esistenti (la rima, la metrica, la successione temporale, ecc.) e possa creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di contraintes diverse, da quelle in qualche modo legate all’enigmistica, come il palindromo, l’acrostico, il lipogramma, a forme più direttamente legate alla matematica, come, oltre alla. combinatoria, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Fra le numerose definizioni dell’Oulipo fornite dagli stessi membri, una, dello stesso Queneau, è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. La “filosofia” di questo gruppo tuttora attivo e ramificato in diversi paesi, tra cui l’Italia, è che l’uso delle contraintes conduce l’autore a un maggiore sforzo immaginativo e può generare opere di assoluto interesse e qualità.

La libertà compositiva del testo, lungi dall’essere mortificata, viene invece esaltata, come spiega lo stesso Queneau fin dal 1938 in aperta polemica con la scrittura automatica dei surrealisti:

“Un’altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”.

I procedimenti combinatori utilizzati da Queneau sono tuttavia squilibrati verso l’immediatamente percepibile applicazione dell’artificio: essi non si tramutano nelle misure letterarie fondamentali (romanzo, racconto, o testo teatrale), ma si ritagliano un campo di sperimentazione limitato (il sonetto, appunto, o il frammento), in cui realizzare una sintesi tra i valori delle matematiche e quelli letterari, ad essi subordinati. La letteratura potenziale, in cui si attua la sua combinatoria, è cioè ancora una microcombinatoria, un fenomeno solo propedeutico alla combinatoria vera e propria in letteratura, di cui un maestro contemporaneo è stato ad esempio l’altro oulipiano Georges Perec con La vita: istruzioni per l’uso.

La fascinazione di Queneau per i numeri fu precoce: alcune pagine del suo diario di adolescente già lo dimostrano chiaramente. A 17 anni annota: “Sono andato con Leroux al Museo. Studio con furore la matematica”. Alcuni dei suoi saggi, pubblicati in Bords (1963) e in Bâtons, chiffres et lettres (1965, in italiano “Segni, cifre e lettere e altri saggi”, Einaudi, 1981) contengono talvolta considerazioni sulle serie di Fourier, su Hilbert, su Bourbaki, e sulle “congetture errate nella teoria dei numeri”.

Dal punto di vista più strettamente narrativo, nelle opere di Queneau la matematica compare, oltre che come struttura, con i limiti sopra esposti, anche in qualità di oggetto di letteratura, come ad esempio in Odile (1937, pubblicato in italiano da Einaudi nel 1989 e poi da Feltrinelli).

Odile non è un romanzo matematico, anche se il suo protagonista, Roland Travy, è un matematico dilettante fallito. Si tratta invece della duplice storia di una vicenda amorosa e di un’infatuazione intellettuale. La prima, quella tra Travy e Odile, l’eroina nascosta che dà titolo all’opera, termina bene. La seconda, quella di Travy per il cenacolo surrealista il cui capo Anglarès è la parodia di André Breton, termina male (e si tratta di una vicenda autobiografica perché Queneau era stato surrealista alla fine degli anni ’20, abbandonando il movimento con disprezzo per i suoi deliri onirici) .

La matematica svolge un ruolo portante nella narrazione, un ruolo che è “ambientale” e mai didascalico o divulgativo (diversamente da opere come Il teorema del pappagallo di Hans Guedj o Il mago dei numeri di Hans Magnus Enzensberger). Tanto meno Queneau fa uso della matematica per creare metafore.

In Odile la matematica è utilizzata per dipingere l’identità del protagonista, che in essa cerca rifugio, e come ambiente narrativo. Quando Travy parla di matematica, riporta con precisione alcuni teoremi come si potrebbero trovare in un manuale. Ecco il suo sfogo durante un colloquio con Odile:

“Gettai uno sguardo inutile su un foglio di carta che si attardava sul mio tavolo: dati due rami regolari semplici a diramazioni alterne, trovare il numero dei loro punti di intersezione in funzione di dodici quantità da cui dipende la loro rappresentazione simbolica in rapporto a due assi di coordinate. Ci volevano sei quantità per rappresentare senza ambiguità una tale figura geometrica, era là, pretendevo una delle mie scoperte, in effetti una semplice constatazione che fino a quel momento io non sapevo dedurre nulla. Presi un quaderno; vi erano dei calcoli su una nuova classe di numeri di cui mi credevo il padre, numeri formati di due elementi estremi di una doppia ineguaglianza. Essi presentavano rispetto alle tre operazioni diverse dall’addizione delle proprietà estremamente curiose che non arrivavo a spiegarmi chiaramente; delle ricerche su ciò che chiamavo l’induzione di serie infinite e l’integrale di Parseval, su ciò che definivo l’addizione a destra e quella a sinistra dei numeri complessi e l’importanza di queste operazioni per l’analisi combinatoria. Numeri, numeri, numeri…”

Significativa è la catena di incomprensioni tra Travy e il surrealista Anglarès quando il protagonista fa visita al suo salotto-cenacolo. Travy rappresenta quei giovani intellettuali che seguono i processi della recente matematica e sanno come questa sia andata ben oltre il mero rigore logico e il calcolo efficiente, ma non cade nella trappola della suggestione metaforica esercitata dalle geometrie non euclidee, dagli oggetti topologici, o dai paradossi della logica, come l’indecidibilità di Gödel, o dalle autoreferenze, come l’insieme di tutti gli insiemi o il barbiere di Russell. Al contrario, Anglarès, sostiene che le nuove matematiche rappresentano per i movimenti d’avanguardia la liberazione di nuove facoltà dell’immaginazione: gli oggetti e le strutture della matematica moderna come “bagaglio di metafore”, come investimento estetico, ma senza reale comprensione. Egli rappresenta il prototipo di tutta quella serie di intellettuali non specialisti affascinati e confusi che saranno ridicolizzati alla fine del secolo dalla burla intellettuale di Sokal e Bricmont:

– Non esiste un solo mondo, – gli dissi, – quello che lei vede o che crede di vedere o che immagina di vedere o che vuole vedere, quel mondo che toccano i ciechi, sentono i mutilati e annusano i sordi, quel mondo di cose e di forze, di solidità e di illusioni, di vita e di morte, di nascite e di distruzioni, il mondo in cui viviamo, in mezzo al quale siamo soliti addormentarci. Per quel che ne so io ne esiste almeno un altro quello dei numeri e delle figure, delle identità e delle funzioni, delle operazioni e dei gruppi, degli insiemi e degli spazi. C’è gente, come sa, che pretende si tratti solo di astrazioni, costruzioni, combinazioni. Vogliono far credere a una specie di architettura; si prendono degli elementi della natura, si affinano, si puliscono, si prosciugano e lo spirito umano costruisce con questi mattoni una casa splendida, magistrale testimonianza della potenza della sua ragione… ma in realtà le cose non vanno così; non all’architettura, all’edilizia bisogna paragonare la geometria o l’analisi, ma alla botanica, alla geografia, alle scienze fisiche. Si tratta di descrivere un mondo, di scoprirlo e non di costruirlo o inventarlo perché esiste al di fuori dello spirito umano e indipendentemente da esso. Dobbiamo esplorare questo universo e dire poi agli uomini quel che ci abbiamo visto, dico proprio: visto. Ma per esprimerlo, occorre un linguaggio: quello dei segni e delle formule, quello che si considera comunemente l’essenza stessa della scienza e non ne è che il modo di espressione. Questo linguaggio si rivela ancor più impotente a descrivere le ricchezze del mondo matematico che non la lingua francese a formulare la molteplicità delle cose, poichè esse non si situano allo stesso livello di esistenza. C’è peraltro una specie di filologia matematica che si chiama logistica. Ma forse l’annoio?

(…)

– È impossibile risolvere algebricamente le equazioni di grado superiore al quarto, eccetto in particolarissimi casi. In generale non si può.

– Il fatto è che non ci si sa fare.

– Si può dimostrarlo.

– Ma è scandaloso.

– Proprio così. É scandaloso perché esiste una realtà ribelle al linguaggio algebrico-logico, una realtà che ci supera e che non si può esprimere con un linguaggio inventato dalla nostra ragione, perché tiene in scacco il meccanismo di ricostruzione razionale di quel mondo. (…) Ma non creda che le cose si fermino qui e che l’intelligenza rinunci a proseguire l’esplorazione di quel campo. Si scontra con un ostacolo, cerca di superarlo, e tramite una nuova teoria, la teoria dei gruppi, scoprirà nuove meraviglie. Certamente uno spirito potente concepirebbe questo reale in un sol lampo; la nostra debolezza ci obbliga a dei sacrifici.

– È maledettamente idealista, continui, quel che mi racconta.

– Vuole dire realista: i numeri son delle realtà. Esistono i numeri! Esistono come questo tavolo, più di questo tavolo eterno esempio dei filosofi, infinitamente più di questo tavolo bang!

Travy esprime qui l’opinione platonista di Queneau, e che si trova tra molti matematici moderni (e in scrittori interessati alle scienze esatte come Borges), che la matematica esiste al di fuori dell’uomo, non è una sua invenzione, non è la mera manipolazione di simboli inventati di cui era invece convinto Hilbert. Essa è invece un mondo che l’uomo esplora. I matematici non inventano gli oggetti matematici, bensì li scoprono.

Nel suo rapporto con i numeri, Queneau considerò sempre se stesso un dilettante (nel vero senso della parola), un “buongustaio di cifre”. Ciò non gli impedì di essere aggiornato su suoi sviluppi attraverso letture specifiche, una pratica costante, e la partecipazione ai seminari dei maggiori matematici operanti a Parigi.

Nel 1948 entrò nella Société mathématique de France e, dal 1963, fu membro dell’American Mathematical Society. Da quell’anno partecipò ai seminari di ricerca operazionale e di calcolo dei grafi. Dal suo diario sappiamo che negli anni Cinquanta era in contatto con i principali esponenti del gruppo di Bourbaki e che incontrava regolarmente a cena il logico matematico austriaco Georg Kreisel (1923), che allora insegnava a Parigi, con il quale discuteva delle principali innovazioni matematiche.

Nella vasta bibliografia di Queneau, a dimostrazione del radicamento del suo interesse e della competenza acquisita, è presente persino una vera e propria pubblicazione matematica. Si intitola Sur les suites S-additives (e il lettore accorto avrà notato l’allitterazione…), che fu presentato da André Lichnerowicz come nota all’Accademia delle Scienze francese durante la seduta del 6 maggio 1968 e in seguito fu pubblicato (in francese!) sul Journal of Combinatorial Theory (12, p. 31, 1972) con la presentazione di Giancarlo Rota. In 41 pagine si succedono definizioni, teoremi con le loro dimostrazioni e un certo numero di congetture, tutti frutto dell’elaborazione di Queneau nel campo della teoria dei numeri. Altro che “due culture!”

Queneau ha rappresentato la ricerca più significativa realizzata nel Novecento di una sintesi tra scienza e umanesimo, di cui possiamo leggere le basi teoriche in questo brano nel quale Queneau individua negli ambiti della Scienza e dell’Arte un’identica costituzione genetica:

“L’ideale che si sono costruiti gli scienziati nel corso di tutto questo inizio di secolo è stato una presentazione della scienza non come conoscenza ma come regola e metodo. Si dànno delle nozioni (indefinibili), degli assiomi e delle convenzioni. Ma questo non è forse un gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di procedere nell’esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo fermare su questo punto: la scienza è una conoscenza, serve a conoscere? […] che cosa si conosce in matematica? Precisamente: niente. E non c’è niente da conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l’insieme, la funzione più di quanto “conosciamo” la Realtà Concreta Terrestre e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati, metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente quello che si chiama un jeu d’esprit. Perciò l’intera scienza, nella sua forma compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né più né meno di come si presenta l’altra attività umana: l’Arte”. (*)

(*) In La matematica nella classificazione delle scienze (1938), ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, cit.

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