Anecdota Critica — Takarazuka

Ho finito di scrivere il musical di Frequenza Critica!

Ioannis Largo
Frequenza Critica
9 min readJun 9, 2021

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il teatro di Sakura Wars

Secondo appuntamento di questa rubrica formata da aneddoti e da curiosità nate da videogiochi conosciuti e non.

L’industria videoludica nipponica ci permette un raro cambio di prospettiva dove l’Occidente è oggetto, rappresentato e descritto secondo altre immagini, altri principi, addirittura meme.

Meme. Singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile per imitazione da un individuo a un altro o da uno strumento di comunicazione ed espressione a un altro. — [Voce dal vocabolario Treccani]

Attenzione! Questa non è una divisione manichea e granitica, siamo pur sempre in una società globalizzata, il Giappone non è un mondo isolato e sperduto, quell’ampissimo Occidente che letteralmente va dagli Appennini alle Ande presenta numerose differenze interne. Il terzo capitolo di questa rubrica sarà dedicato ad Assassin’s Creed, in particolare a come la rappresentazione di un luogo o di una cultura dipenda in parte anche da una lunga presenza di immagini, principi e meme interiorizzati dal narratore/sviluppatore. Un qualcosa di non pienamente volontario, frutto del consumo di altri media o addirittura di quanto imparato a scuola.

Nel caso dell’amico Nippone, noi possiamo meravigliarci nel vedere i personaggi cinesi femminili indossare spesso il qipao oppure una netta distinzione cromatica tra personaggi provenienti dall’Europa Continentale/USA e quelli provenienti dal Mediterraneo o dall’America Latina. Immagini che devono immediatamente identificare un aspetto del personaggio, facilitando così la comprensione della sua storia.

Quella specie di United Colors of Benetton femminile dell’universo di Sakura Wars ci dà uno sguardo su quali immagini siano utilizzate da sviluppatori, artisti, compositori nipponici per indicare le diverse culture occidentali. Un qualcosa che risalta pienamente rispetto ad altri titoli “multiculturali” come quelli appartenenti al genere dei picchiaduro che per caratteristiche ludiche e narrative puntano molto sul character design e sulla riproduzione di quelle immagini. Facciamo brevemente l’esempio dell’Italia come luogo.

Anecdota-Critica-KOF-Stage-Italia
KOF’ 94 della SNK fu il primo picchiaduro a presentare uno stage italiano, ossia Venezia. Tra sbandieratori, gondolieri e coraggiosi nuotatori. La canzone del Team Italy o Team Fatal Fury (privo di italiani) è intitolata Napolitan blues.
stage di Rose in Street Fighter
Anni dopo la Capcom decise di inserire un personaggio italiano nel roster di Street Fighter, ossia Rose. Molto probabilmente dopo aver scoperto che la SNK aveva già preso Venezia, proposero una Rose proveniente da Genova. Il suo stage non ha un nome (semplicemente è Rose’s Stage), ma solo nel recente capitolo si è ammesso che Genova non è il clone di Venezia.

Peccato che non abbiamo uno stage ambientato a Bari, dato che un secondo personaggio italiano nella saga di Capcom è il barese Vulcano Rosso. In verità con Street Fighter si bara un po’, perché è forte l’influenza delle opere di Hirohiko Araki nella rappresentazione dell’Italia. In verità sugli Italiani nei videogame ci sarebbe tantissimo da scrivere: dalle atmosfere bucoliche del primissimo livello di Hitman 2 passando a un curioso eroge che a prima vista sembra l’incrocio tra Nier Automata e Syberia ambientato nel Nord Italia.

Anecdota-Critica-Orihime
Il secondo capitolo di Sakura Wars introduce due nuove maiden: la tedesca Reni (o Leni, per il solito gioco del suono r/l) e l’italo-nipponica Orihime. Lunghi capelli neri, pelle più scura rispetto alle altre maiden, cantante e musicista geniale, carattere dispettoso, dormigliona, lievi difficoltà nel parlare il giapponese e piuttosto indispettita verso gli uomini giapponesi (il motivo è ovviamente il solito trauma). La sua stanza è addobbata con striscioni del tricolore, casomai il giocatore dubitasse della sua nazionalità.

La saga di Sega è un prodotto destinato principalmente a un pubblico locale e soprattutto piuttosto giovane e poco smaliziato. Sì, certe volte la storia si fa cupa, ma niente di così complesso o poco comprensibile. I diversi personaggi sono facilmente interpretabili grazie a un attento character design che immediatamente indica il carattere, la classe sociale o addirittura la nazionalità. Se questo si vede poco nel primo capitolo — che presenta “solo” una cinese, una russo-nipponica e un francese — , questo aspetto si espande nei successivi capitoli con l’inserimento di altre nazionalità e di diversi background sociali.

Anecdota-critica-ii
Ci sono tre giapponesi, una giapponese cresciuta in Francia, tre francesi (di cui una fortemente normanna), una vietnamita, una tedesca, una russo-nipponica, un’italo-rumena, un’italo-nipponica e una cinese. Sembra una barzelletta. Facciamo il gioco che abbiamo fatto tanto tempo fa con un altro titolo, scommetto che riuscite a fare senza grandi problemi l’abbinamento nazionalità — maiden pur non avendo mai giocato.

In sei capitoli e diversi spin-off ci sarebbero diversi esempi. Nel primissimo capitolo, anno domini 1996, e in particolare nell’episodio dedicato al compleanno della decenne Iris, quando il protagonista andrà con lei al parco e le comprerà un ciondolo/anello/fermaglio, il venditore gli domanderà chi è la ragazzina. Ci saranno date tre opzioni di risposta: sorellina, collega di lavoro, fidanzata; alla seconda e soprattutto terza risposta il venditore strabuzzerà gli occhi e commenterà su come gli stranieri siano così diversi da loro. Alla prima guarderà confuso i due, domandandosi come un marcantonio alto circa 1,80m dai capelli neri e occhi castani sia il fratello maggiore di una ragazzina dai capelli biondi e dai tratti occidentali.

Nel terzo e quinto capitolo, ambientati rispettivamente a Parigi e a New York, le differenze sono esaltate in ottica comica attraverso la mania delle due rispettive protagoniste, la francese Erica e la statunitense Gemini, verso la cultura giapponese. Nel quinto capitolo ci sono l’innocenza e la difficoltà a comprendere la cultura statunitense da parte di Taiga, il nuovo protagonista maschile. Il quinto capitolo (primo a essere portato in Occidente, seppur con scarsi risultati), presenta alcuni nomi modificati: la messicana Rikaritta diventa Rosarita, mentre l’afroamericana Sagitta Weinberg vede il suo nome (e soprattutto cognome) mutare nello strambo Cheiron Archer.

Quest’ultimo cambio di nome accenna anche alla questione dell’adattamento e della traduzione, che oscilla spesso tra un’estrema pretesa filologica e una tendenza ad adattare battute e consuetudini proprie della cultura nipponica a quella statunitense (o del paese di destinazione). Non mi soffermo su ciò e su come negli ultimi anni questa diatriba abbia quasi distrutto il mondo delle traduzioni amatoriali, perché estremizzata e politicizzata pateticamente. No, evitare di tradurre uno slur omofobo, non ha portato alla fine della presidenza Trump.

Torniamo al nostro argomento principale…

Domanda

Ma davvero in Giappone negli anni Venti del secolo scorso esisteva una compagnia teatrale formata esclusivamente da ragazze?

Sì, ma non c’erano i mecha a vapore.

It’s showtime!

La nostra storia inizia il 30 luglio del 1912, giorno dell’incoronazione del principe Yoshihito Shinnō come centoventitreesimo imperatore del Giappone. La figura dell’imperatore nella cultura nipponica e in quella cinese è strettamente collegata al divino o è divinizzata, quindi la consuetudine di non chiamare un aristocratico con il suo nome personale era esasperata nel caso della figura imperiale, che acquistava un nome scelto a tavolino dalla corte o dalla stessa famiglia imperiale. Un nome non solo finalizzato alla legittimazione politica dell’imperatore o a garantire un buon auspicio per il suo impero, ma anche con una funzione di periodizzazione storica. Quest’ultima per il Giappone è il sistema delle “ere”, ovvero la storia è scandita attraverso il susseguirsi degli imperatori. Il sistema delle ere non fu sempre stabile, anzi in diversi momenti capitò che un imperatore assumesse il nome più tardi, alla sua morte o addirittura non lo assumesse proprio. Solo nel 1868 fu stabilito il principio che a ogni imperatore doveva corrispondere un’era (e solo nel 1967 si arrivò a una legge vera e propria). Ritornando a quel 30 luglio del 1912, finisce l’era Meiji e inizia l’era Taishō, che durerà fino al 1926, quando inizierà l’era Shōwa.

In quel primo ventennio del ventesimo secolo, il Giappone non è più la nazione chiusa costretta a firmare i trattati ineguali sotto la minaccia dei cannoni del commodoro statunitense Matthew Perry. A differenza dei tantissimi piccoli potentati del subcontinente indiano e dell’Asia Sud-Orientale, o di un Impero cinese sull’orlo del collasso, il Giappone non reagì passivamente all’incontro con le grandi potenze occidentali. Sotto l’influenza statunitense (e in modo minore francese) e con il duro peso dei trattati ineguali, il Giappone avviò un mutamento della struttura politica e industriale tra imposizione esterna e capacità di adattamento: non si copiano, ma si adattano alla cultura secolare giapponese le istituzioni militari francesi e prussiane ma anche quelle civili inglesi e statunitensi. Dall’età dei daimyō e dei ronin si passa a quella dei kazoku, dei grandi complessi zaibatsu e della moderna flotta imperiale. Questa non fu una transizione pacifica e lenta, basti pensare alla guerra Boshin. In ogni caso, al contrario del vicino cinese il Giappone mai rischiò di sgretolarsi permettendo alle rapaci potenze coloniali occidentali di sfruttare tale debolezza. La guerra sino-giapponese del 1894 e soprattutto la guerra russo-giapponese del 1905 sancirono l’entrata del Giappone tra le potenze mondiali, o con una forte tinta di razzismo occidentale, tra le nazioni civilizzate.

Puck-Anecdota-Critica
Puck fu una rivista satirica statunitense pubblicata tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo. Questa è un’immagine tratta dal numero dell’agosto del 1899.

L’era Taishō sancisce anche la trasformazione della società giapponese in una società di massa simile a quelle occidentali con una nuova propensione al consumo, ovviamente sempre limitandoci a una borghesia medio-alta. Un’era caratterizzata da un’incredibile fiducia nel futuro e dall’acquisizione da parte del popolo, ovviamente sempre dell’alta-media borghesia, di libertà politiche e della possibilità di consumare prodotti.

Questo atteggiamento di fiducia e di volontà di consumo arrivò anche nell’ambito teatrale e letterario: accanto ai generi propri dello seigeki (teatro ortodosso) si iniziarono a diffondere la drammaturgia occidentale, l’opera, la lirica, il balletto e il teatro di rivista. Tutto ciò accompagnato anche dalla volontà delle giovani generazioni di creare un nuovo teatro: non copia speculare di quello occidentale, ma un qualcosa di nuovo, rivendicazione delle libertà politiche e rifiuto delle vecchie consuetudini e in particolare del kabuki, considerato espressione di una società vecchia e congelata ancora in un sistema a caste. In un primo momento si tentano di adottare i soggetti occidentali ai generi propri (in particolare proprio all’odiato kabuki) riscrivendoli imponendo ambientazione e personaggi giapponesi. Fu un percorso lungo caratterizzato dalle difficoltà non solo di traduzione, adattamento e presentazione, ma soprattutto dalla necessità di formare (e di adattare) attori allo stile occidentale totalmente differente da quello tradizionale del teatro ortodosso. Le date di inizio di questa diffusione furono l’allestimento del Faust da parte dei membri dell’ambasciata austro-ungarica nel 1894 e soprattutto l’allestimento dell’Orfeo ed Euridice di Gluck all’Università delle Arti di Tokyo nel 1909, dove debutterà una giovanissima soprano di nome Tamaki Miura, la futura Madama Butterfly del Puccini; infine il 1913, quando sarà coniato il termine di shingeki, ossia nuovo teatro.

Per ora soffermiamoci esclusivamente sul teatro di rivista, un genere di spettacolo teatrale caratterizzato dalla commistione di recitazione, danza e carta e diffuso principalmente in Francia (es: Moulin Rouge) con caratteristiche comuni al teatro di varietà e al vaudeville. Nel Giappone del 1920, il distretto di Asakusa di Tokyo assiste all’esplosione di questo genere principalmente con spettacoli di carattere comico o addirittura erotico. Nel 1914 e nel 1920 nacquero due riviste dedicate a un pubblico preventivamente femminile, rispettivamente a Takarazuka, questa piccola città termale a nord di Kobe, e nella più grande Osaka, prendendo il nome rispettivamente di Takarazuka kagekidan di Shōchiku kagekidan (SKD).

Kobayashi Ichizō fu uno dei fondatori della Mino-o Arima Electric Railway Company, una compagnia ferroviaria che avvia un’immensa opera di costruzione di linee ferrate nelle parti più interne e periferiche del Giappone. Personalità interessante, a lui è attribuita l’idea di una stazione ferroviaria non limitata a essere luogo dove si aspetta il treno, ma come luogo di consumo dove possono essere presenti negozi o luoghi di svago. Egli decise di investire nella piccola città periferica di Takarazuka costruendo un complesso termale e soprattutto allestendo una piccola compagnia teatrale specializzata nel teatro di rivista e soprattutto finalizzata all’educazione delle sue giovani partecipanti.

Questa compagnia è costituita esclusivamente da giovani ragazze, le quali dopo un dura selezione sono scelte e formate in tutte quelle arti necessarie per il teatro di rivista, ossia non la sola recitazione, ma anche il canto, la danza, l’acrobatismo. Le ragazze sono divise in gruppi in base alla loro età e abilità e vivono in maniera collegiale con pochi contatti con lo esterno. Questa aura di mistero è una componente importante del loro successo, in particolare sono le stesse coetanee di queste attrici a essere le loro prime fan, sopratutto di quelle attrici che riescono a interpretare senza problemi un ruolo maschile, ruolo affidato solo alle più brave, esperte e ovviamente dall’aspetto androgino. La carriera dura quasi quanto la loro giovinezza, chi non fa un “salto” verso altri generi, tende a ritirarsi verso i venticinque anni, ritiro che coincide spesso con il matrimonio e celebrato con un grande spettacolo di ritiro. Quest’idea che un’artista, ma anche una sportiva, debba ritirarsi in occasione del matrimonio per iniziare una rispettabile vita da moglie e madre, in un certo senso dura ancora oggi (ovviamente in modo molto minore rispetto a un secolo fa).

Takarazuka
Uno dei manifesti degli anni 20–30 del Takarazuka: Mon Pari, primo successo del periodo antecedente alla guerra.

Gli spettacoli di questa compagnia, ma anche della SKD (che scomparve nel 1996) sono tratti dalle più svariate opere di qualsiasi soggetto. Sono caratterizzati dalla successione di distinte scene-saggi, dove la singola attrice si esibisce, mentre negli intermezzi ci sono numeri collettivi caratterizzati da una scenografia piuttosto complessa. In particolare il Takarazuka fece già prime turnee in Europa nel 1939.

Takarazuka
Questo dovrebbe essere la copertina di un DVD contenente il più famoso spettacolo del Takarazuka del dopoguerra: è il 1974, e il suo nome è Berusaiyu no bara (Le rose di Versailles).

Purtroppo per la buona anima del suo fondatore, i mecha a vapore e i poteri psichici rimangono solo nella fantasia di Segata. Kobayashi Ichizō, essendo stato esponente dello Statalismo Shōwa, fu membro dei diversi governi nipponici degli anni 40–50 e sicuramente dei mecha a vapore gli sarebbero serviti nella battaglia del Pacifico.

Nel prossimo episodio andremo nella Firenze del Rinascimento sulla scia del tema di questo secondo episodio, come le avventure di Ezio siano fondate su una lunga scia di immagini e meme proprie della cultura anglosassone.

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