Metroid Dread, Hollow Knight e la gioia di perdersi

Due facce della stessa medaglia, tra libertà e direzione.

Luca “Master Hayabusa” Sapora
Frequenza Critica
11 min readNov 1, 2021

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Premessa: non sono qui per entrare nella polemichetta che ha infiammato il web italiano a seguito della recensione di Metroid Dread da parte di Marco Mottura, che suo malgrado si è trovato in mezzo al fuoco per motivi che, a mio modesto parere, poco hanno a che fare con un’effettiva analisi del game design o con la conoscenza della storia del medium. Piuttosto mi interessa raccogliere l’invito del buon Damaso, cercando di trasformare la polemica in uno spunto di discussione sulle caratteristiche e l’evoluzione di uno dei miei generi preferiti: i metroidvania.

Innanzitutto, cos’è un metroidvania? Come fa notare giustamente Francesco Toniolo, il concetto stesso di genere è di per sé spigoloso e va preso per quello che è: un’etichetta di comodo, una categorizzazione imperfetta che serve a semplificare un discorso. I metroidvania nascono, un po’ come nell’esempio dei “cloni di DOOM” fatto da Francesco, per imitazione di un’opera seminale che ha fatto scuola e posto dei canoni. Anche se, in questo caso, sarebbe più corretto dire, come suggerisce il nome stesso del genere, che le opere seminali siano due: (Super) Metroid e Castlevania (Symphony of the Night).

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In effetti, gran parte delle caratteristiche del genere erano di fatto presenti già nel primo Metroid, pubblicato nel 1986 per NES. Ma allora perché non li chiamiamo Metroid-like, a parte per il fatto che sarebbe una delle poche etichette più cacofoniche di “metroidvania”? Perché, sebbene diversi titoli negli anni immediatamente successivi avessero imparato dalla lezione di Metroid (su tutti va citato il bellissimo Wonder Boy III: The Dragon’s Trap), ci sarebbero voluti ancora parecchi anni prima che il genere fosse riconosciuto e “canonizzato”. È solo negli anni 2000 che l’etichetta inizia a diffondersi, utilizzata per indicare i giochi ispirati ai due capolavori degli anni ’90 di cui sopra, che assurgono quindi di fatto al ruolo di “padri” del genere.

Parentesi storiografica a parte, e rimandando a un mio vecchio articolo per un’analisi più generale delle caratteristiche del genere, si può dire riassumendo che i metroidvania si distinguano per: un mondo di gioco interconnesso, ma non liberamente esplorabile sin da subito; frequente enfasi sull’esplorazione non-lineare, spesso con una certa dose di backtracking; una progressione scandita dallo sblocco di nuove abilità che permettono di accedere ad aree precedentemente irraggiungibili. Tendenzialmente, inoltre, si tende a includere nel genere solo i videogame bidimensionali.

La tensione fondamentale al cuore dei metroidvania è quindi, secondo me, quella tra libertà e direzione: come si fa a bilanciare un’esperienza esplorativa coinvolgente e soddisfacente, che dia al giocatore l’impressione di star scoprendo il mondo di gioco alle sue condizioni, con la necessità di dargli un orientamento, evitando la frustrazione dovuta al non sapere come proseguire?

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Diversi esponenti, nel corso degli anni, hanno risposto a questa domanda in modi drasticamente differenti, pur mantenendo in linea di massima le caratteristiche principali del genere, rappresentando quelle che si potrebbero definire di fatto delle correnti interne. La serie Metroid in questo costituisce un esempio prezioso perché, al netto delle apparenze, tra un capitolo e l’altro intercorrono differenze anche sostanziali in termini di game design, level design e gestione dei ritmi esplorativi.

Il primo Metroid, un po’ per limiti tecnici del NES e un po’ per il suo essere un titolo seminale nel campo della costruzione di una mappa non lineare, è un gioco che non si cura minimamente di aiutare il giocatore. Quest’ultimo viene lasciato quasi completamente al suo destino nell’esplorazione di Zebes, in un mondo di gioco che molto rapidamente si apre a dismisura, senza particolari indicazioni e privo persino di una mappa che lo aiuti a tenere traccia dei suoi spostamenti. Il tutto esacerbato da diversi punti in cui per procedere si deve distruggere uno specifico blocco, non distinguibile in alcun modo dagli altri, spingendo il giocatore a un poco elegante “spara a ogni muro” (ma sul serio, non come nelle comiche critiche di David Jaffe a Metroid Dread).

Insomma, se il valore storico di Metroid è assolutamente indiscutibile, possiamo serenamente dire che, secondo gli standard odierni, il suo design può essere definito acerbo. Tralasciando Metroid II, che fa un po’ storia a sé, è Super Metroid a prendere le idee del capostipite e inserirle in una forma di tutt’altra raffinatezza, tanto da essere ancora considerato da molti uno dei migliori esponenti del genere.

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Super Metroid offre un’esperienza decisamente più accomodante per il giocatore, con una progressione più controllata, un level design più chiaro e l’introduzione di una mappa che aiuti l’orientamento. Il gioco si apre man mano, partendo con una fase introduttiva più lineare in cui il giocatore può esplorare solo una piccola parte della mappa di Zebes, per poi gradualmente rimuovere le rotelle e lasciarlo più libero. Ovviamente la libertà in un metroidvania è sempre illusoria, parziale e subordinata all’acquisizione di nuove abilità, e il rischio di un design eccessivamente non lineare sarebbe quello di confondere il giocatore.

Super Metroid in questo trova un equilibrio praticamente perfetto, dando al giocatore la sensazione di star esplorando il mondo di gioco ai suoi ritmi, ma al tempo stesso senza lasciarlo (quasi) mai del tutto all’oscuro su come proseguire grazie a un design sopraffino, con ostacoli memorabili che guidano silenziosamente il backtracking senza dover costringere il giocatore in un itinerario prestabilito. Vengono così esaltate le sensazioni di scoperta e progressivo dominio di uno spazio che sono l’anima di un metroidvania: non è quindi un caso che lo scheletro di Super Metroid sia stato imitato e riprodotto da tantissimi giochi successivi, talvolta anche troppo pedissequamente.

Se c’è qualcuno che non lo ha imitato, paradossalmente, è il suo seguito: Metroid Fusion.

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Volendo semplificare il discorso e identificare i due poli, all’interno della serie Nintendo, in un continuum che va dal totale spaesamento al direzionamento asfissiante, questi sarebbero senz’altro rappresentati da Metroid (1986) e Metroid Fusion. Forse non credendo di poter significativamente migliorare la base di Super Metroid, con il capitolo successivo Nintendo ha deciso semplicemente di fare qualcosa di diverso.

In Fusion, infatti, il giocatore è guidato a ogni passo su un percorso stabilito dai designer, indirizzato dalle direttive di Adam e dai comodi indicatori piazzati sulla mappa di gioco, inscatolato in una progressione sostanzialmente lineare. La base resta quella di un metroidvania, nel senso che le singole aree sono strutturate in modo da offrire quei loop di “ostacolo insormontabile — potenziamento — accesso a una nuova area” che definisce il genere, ma questi loop sono più ristretti e viene quindi dato meno spazio al giocatore per girovagare.

Si tratta di una precisa scelta di design, dettata anche dalle velleità parzialmente horror dell’opera, atta ad avere un maggior controllo sul ritmo di gioco e sull’incedere del giocatore, al prezzo di un’esplorazione più libera e personale della mappa e di quella sensazione di essere davvero avventurieri in un mondo sconosciuto.

Da allora ci sono voluti 19 anni per avere un nuovo Metroid bidimensionale, fatta eccezione per due remake, ma intanto il genere è stato riconosciuto, si è diffuso e si è evoluto. Senza i suoi padri.

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L’evoluzione dei Castlevania a partire dall’altro padre del genere, Symphony of the Night, meriterebbe un approfondimento apposito. Basti ricordare che SotN ebbe il merito di operare una totale trasformazione della serie, portandola in una struttura non lineare à la Super Metroid (anche se, a detta dell’autore Koji Igarashi, la fonte di ispirazione fu The Legend of Zelda), inserendo nella formula anche elementi RPG e costruendo un unico mondo di gioco ampio, interconnesso e organico come mai prima. A sua volta SotN ha generato una serie di eredi che, con maggiore o minor successo, hanno cercato di riproporre e rielaborare la formula, come le trilogie per GBA e DS curate (per lo più) da Iga stesso.

Con il boom degli indie tanti sviluppatori hanno ripreso idee da Super Metroid, da Castlevania: Symphony of the Night o da entrambi, andando a costituire quello che si potrebbe definire un vero e proprio rinascimento dei metroidvania, dopo anni di iato. Uno dei più importanti, qualitativamente e in termini di evoluzione del genere, è senza dubbio Hollow Knight: giustamente definito da Andrea Scibetta come “il metroidvania pop”, il gioco di Team Cherry è l’esponente più in vista, quello che è stato giocato anche da chi, essendosi avvicinato al genere solo di recente, magari non ha mai giocato né un Metroid né un Castlevania.

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Hollow Knight, di per sé, non inventa molto. Ciononostante, ibridando la base metroidvania con contaminazioni provenienti dai Souls, presentando una mole di contenuti e una complessità della mappa ben al di sopra della media del genere, e operando alcuni cambiamenti chiave alla formula, è riuscito a ritagliarsi una sua unicità e a rappresentare un nuovo punto di riferimento nel genere. Più di tutto risulta secondo me interessante soffermarsi sul sistema di mappe di Hollow Knight, perché spesso si sottovaluta quanto questo possa influenzare la percezione dello spazio e il rapporto del giocatore con esso, e quindi l’intera esperienza esplorativa.

Si pensi ai giochi From Software, e a quanto Dark Souls cambierebbe se con la pressione di un tasto si potesse richiamare a schermo una comoda mappa, che ci indichi magari dove siamo già stati, dove trovare un falò o il prossimo boss. Ma anche a come, al di là della maggior raffinatezza del level design, sia cambiata l’esperienza da Metroid a Super Metroid con la semplice introduzione di una mappa, o a quanto impattante sul design sia il fatto che in Metroid Fusion all’ingresso di ogni area ne venga automaticamente svelata buona parte della struttura, oltre che indicato l’obiettivo con un segnalino.

Hollow Knight utilizza la sua mappa in un modo assolutamente unico e brillante: ogni volta che si scopre una nuova area si è privi di mappa, neanche le strade già esplorate vengono indicate, e il giocatore è quindi del tutto privo di riferimenti finché non trova il cartografo, Cornifer. Anche una volta ottenuta la mappa di un’area, questa non andrà a riempirsi automaticamente durante l’esplorazione, ma solo qualora si riposi su una panchina. Questo, unito alla vastità del mondo di gioco e alla notevole non linearità della progressione, costringe il giocatore a ragionare su ogni passo, a cercare di tenere a mente dove è già stato, dove non è stato, dove andare.

Si è obbligati a prestare attenzione al mondo di gioco, a intrattenere con lo spazio una relazione attiva e a costruirsi una mappatura mentale delle zone, aumentando il coinvolgimento e il senso di scoperta. In poche parole: si esplora.

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Come si inserisce Metroid Dread in tutto questo? Il precedente lavoro di MercurySteam, Metroid: Samus Returns, si era distinto per una vocazione prettamente action, arricchendo il moveset di Samus con un contrattacco (fin troppo) centrale nell’economia degli scontri, puntando molto sulla spettacolarità e a mio parere banalizzando la componente esplorativa, in particolare grazie al potere Aeion che permetteva di rivelare buona parte della mappa circostante. D’altra parte, quel gioco doveva anche fare i conti con la struttura ereditata da Metroid II, che già di suo era un’esperienza limitata dai limiti del Gameboy, quindi la curiosità di vedere come avrebbero gestito un capitolo nuovo era tanta.

Dread colpisce immediatamente per la fluidità dei controlli e per la naturalezza dei movimenti: tutto è scattante, rapido, controllare Samus non è mai stato tanto soddisfacente. Se questo è vero all’inizio, come nei migliori metroidvania è con la progressiva acquisizione di abilità che il moveset del personaggio prende davvero forma, e anche solo muoversi in Dread con una Samus totalmente potenziata è un piacere.

Questa è sicuramente la grande delizia del gioco, ma per come la vedo io rischia di esserne anche la croce. Dread sembra così preoccupato di tenere le cose sempre in movimento, sempre rivolte in avanti, da non lasciare mai il tempo di ragionare realmente su dove si sta andando. L’impressione è quasi che MercurySteam abbia sinceramente paura che il giocatore possa perdersi e non sapere dove andare, e faccia di tutto per evitarlo. Sia chiaro, il direzionamento non è esplicito e urlato come in Fusion, ma cionondimeno è incessante, e se proprio dovessi dire di chi è figlia l’esplorazione in Dread…beh, direi che è figlia di Fusion.

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Il mondo di gioco di Dread è piuttosto complesso, e all’apparenza la progressione nel gioco è assolutamente non-lineare: si salta costantemente tra una location e l’altra tramite sistemi di ascensori e teletrasporti, si ottiene un potere in un’area che viene utilizzato per sbloccare una strada in un’altra, dove poi si sblocca un nuovo potere. A ben vedere però, il giocatore è tacitamente guidato tra una meta e l’altra tramite ingegnosi trucchetti di level design (e in questo il lavoro di MercurySteam è assolutamente di qualità), di cui l’esempio più banale e facile da notare potrebbe essere il tubo nell’immagine qui sopra. Quando ci si imbatte in un teletrasporto o in un ascensore è altamente probabile, se non sicuro, che l’intenzione dei designer sia di spingerci a prenderlo immediatamente, perché la strada principale è da quella parte.

Saltare da un’area all’altra non è quindi tanto una scelta, quanto una necessità dettata dalla progressione stessa, e mi è capitato diverse volte di provare a fare backtracking solo per trovare la via in qualche modo bloccata. Dirà qualcuno: e il sequence breaking? Stanno infatti già venendo fuori diversi modi nascosti di ottenere abilità prima del tempo, palesemente previsti dagli sviluppatori in ottica speedrun. Il sequence breaking è però un discorso a parte, relativo più che altro alla rigiocabilità, pensato per giocatori esperti che vogliano per l’appunto rompere una sequenza stabilita.

Nell’esperienza di una prima run, per quanto mettendocisi di impegno un giocatore scafato possa sicuramente trovare il modo di rompere la sequenza, il direzionamento è tale che raramente ci si trova a pensare “e adesso dove vado?”. Il gioco in fondo fa di tutto perché tu non ti senta mai perso.

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Per capire quanto invece possano lasciare liberi giochi come Super Metroid o Hollow Knight nella loro progressione, non posso che consigliare le analisi specifiche fatte dal solito Mark Brown, che spiega nel dettaglio la struttura di molti dei giochi citati in questo articolo, meglio di quanto possa fare io (e poi l’articolo dovrà pure finire, prima o poi).

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Per concludere mi permetto di rubare dal suo video una citazione di Team Cherry, per fare una riflessione:

(Indicazioni eccessive) andrebbero a scapito di molti giocatori che, inizialmente persi, trovano la loro strada e iniziano a conoscere la struttura del regno a un livello molto più personale

Perché un vero senso del luogo, la vera percezione e conoscenza di uno spazio si sviluppano quando esiste la possibilità di perdersi, quando si deve ragionare sui propri passi e si arriva ad esercitare un progressivo dominio sullo spazio stesso oltre che sulle meccaniche di gioco. Il Regno di Nidosacro, il pianeta Zebes e il Castello di Dracula resteranno nella mia mente perché sono luoghi che ho vissuto, in cui mi sono perso ma che alla fine ho conquistato.

Di ZDR ricorderò un tour guidato, con controlli eccezionali e ottimi combattimenti.

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