Trovare la strada, o perché amo i metroidvania

“Scusi, ma per andare dove dobbiamo andare…”

Marco "Brom" Bortoluzzi
Frequenza Critica
9 min readFeb 15, 2021

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Hollow Knight, Nidoscuro. Una buia caverna circonda il nostro piccolo eroe.

Allora, leviamoci subito il sassolino dalla scarpa: io a Castlevania: Symphony of the Night non ho mai giocato. Neanche a Metroid, a un qualunque Metroid, a dire la verità. Non perché io abbia qualche tipo di disprezzo nei confronti di queste due serie, intendiamoci: semplicemente, se voi mi nominate un titolo degli anni ‘90/2000 che considerate un caposaldo irrinunciabile di un qualche genere, c’è una buona probabilità che io non l’abbia giocato, e francamente giunto a questo punto non ho nemmeno tutta questa voglia di andarmeli a recuperare.

Non che io abbia qualche tipo di, non so, disdegno verso quelli che la maggior parte della gente considera classici. È semplicemente uno dei tanti sintomi della mia ineffabile (imperscrutabile? imprescindibile? incommensurabile?) indolenza videloduca, la stessa che mi ha portato ad acquistare Pathfinder: Kingmaker e a non andare oltre i primi combattimenti del tutorial, o a comprare Cyberpunk 2077 ed esaurire giusto le tre intro, o a scaricare No Man’s Sky tramite l’Xbox Game Pass e a non riaprirlo più dopo aver lasciato il primo pianeta. È quella sorta di abbiocco che ti prende quando pensi a un gioco, pensi che tutto sommato potresti tornare a giocarci, ma una vocina nella tua testa ti dice “preferirei di no” e alla fine la vocina ha davvero ragione, preferiresti di no. (La cosa, oltretutto, non si limita ai videogiochi, ma penso di essermi già fatto odiare abbastanza quindi meglio evitare di proseguire questo discorso).

Viktor guarda chi scrive questo articolo con supremo disprezzo (con tutta probabilità perché non gioca a Cyberpunk).
È inutile che mi guardi con disapprovazione, Viktor. Io non so neanche chi sei.

Leggendo questa breve introduzione introspettiva, potrebbe venire da pensare che la stessa cosa si applichi anche ai miei gusti videoludici. Che, insomma, io preferisca le cose dove c’è poco da pensare, che richiedono il minimo sforzo, che io sia come il liquido del principio dei vasi comunicanti che si muove solo se sono le leggi della fisica a fare lo sforzo per lui. E forse in parte sarebbe vero — lungi da me sognarmi di giocare a titoli che richiedono l’uso preponderante del cervello tipo Spacechem o, non so, questa cosa qua con i numeri — ma non del tutto. Perché a me c’è un genere di gioco che proprio piace e sono proprio quelli dove capita di non essere sicuri dove andare, di aprire la mappa e di dire “e adesso?”. E genere principe in questo senso sono i metroidvania, tipologia di giochi che negli ultimi anni ha avuto una certa rinascita e anzi, è proprio grazie a questa rinascita se li ho “scoperti” e mi ci sono davvero appassionato.

A far nascere in me questa passione è stato un titolo che tanti lettori sicuramente avranno giocato o perlomeno sentito nominare: Hollow Knight, quel piccolo capolavoro di Team Cherry. Che bello avventurarsi per queste grotte strane, accompagnati da una colonna sonora con momenti davvero fuori scala, scoprire la storia del curioso popolo di insetti che popolava il glorioso regno di Nidosacro e di come questo regno è giunto alla sua fine. Che bello, soprattutto, scoprire che non sai bene dove andare. Ti trovi davanti un bivio, anzi, più di uno, e non è che c’è un puntatore che ti dice “vai di qua, tonto” e ostacoli insuperabili che ti guidano verso il posto “giusto”. No, il gioco ti dice, vuoi andare a scassare le scatole alle mantidi? E vai, chi ti ferma, poi se becchi cartoni sono affari tuoi. E tu dici, sì ok però lo so come funzionano queste cose, se faccio l’area secondaria opzionale e super tosta poi trovo la ricompensa sgravata e aro tutto, no? E invece no perché l’arma la potenzi da un’altra parte e metti caso che riesci a superare le mantidi, poi c’è Nidoscuro che ti odia un sacco e ti vuole morto. Così impari a peccare di hubris (ah, se mi leggesse la mia professoressa delle superiori).

Il protagonista di Hollow Knight si spara tipo missile fra i cristalli rosa del Picco Cristallino.
E poi, di giochi in cui puoi spararti tipo missile non me ne vengono in mente tanti altri (e questo è male).

Che bello che è Hollow Knight. Uno di quei giochi che vorrei cancellarmi dalla memoria per tornare a riscoprirlo, per risentire ancora quel senso — positivo! — di smarrimento, per tornare a passeggiare per la Città delle Lacrime come fosse la prima volta, schivare i tanti ostacoli del Picco Cristallino, rodermi il fegato con le tostissime sezioni platform del Bianco Pal… ecco, quello magari in effetti no, però avete capito cosa voglio dire: il titolo di Team Cherry è uno dei giochi che più ho amato negli ultimi anni, e uno dei motivi è proprio il piacere che si prova esplorando le nuove e anguste caverne. Che poi non è mica una cosa da dare per scontata: il confine fra “piacere dell’esplorazione” e “ma adesso dove accidenti devo andare” è labile e ci vuole una certa abilità per assicurarsi di non valicarlo (momento confessione, sì, di nuovo: a una certa anche in Hollow Knight non riuscivo più a trovare la strada per continuare, ma della cosa mi assumo tutta la responsabilità).

Prendiamo Control, ad esempio. Il third person shooter di Remedy Entertainment, di cui si è parlato tanto in queste pagine, non è proprio un metroidvania. Di sicuro, però, ne include alcuni elementi: il mondo di gioco, quella Oldest House che è sede del Federal Bureau of Control, è un ambiente che possiamo esplorare in tutta tranquillità ma in cui l’accesso a certe aree è possibile solo in un secondo momento. È così per uno dei momenti più iconici dell’intero gioco, l’Ashtray Maze, nel quale potremo avventurarci relativamente presto ma che solo nelle fasi più avanzate dell’avventura di Jesse si rivelerà in tutta la sua magnificenza. Control è anche un gioco che, nonostante la geometria non sempre favorevole al senso dell’orientamento dell’Oldest House, non adotta puntatori precisi che mostrano la strada al giocatore.

Control. Jesse Faden si trova davanti a una stanza piena di post it dovunque: pareti, pavimento, soffitto.
Andando solo dove ci porta la trama o le side quest non troveremmo mai questa stanza. Serve a qualcosa? No. È bellissima? Sì.

Da un lato, questa cosa mi è piaciuta: il worldbuilding è sicuramente uno degli aspetti più riusciti del gioco creato da Sam Lake e compagni, e scoprirne gli strani ambienti un pezzo alla volta dà un senso di soddisfazione e stimola la curiosità come pochi altri giochi riescono a fare. Anche perché a dispetto della struttura parzialmente lineare dei livelli di Control, a seguire solo il beaten path finiremmo per perderci personaggi, quest secondarie, aree intriganti e nuovi abiti per Jesse (che siamo onesti, sono la cosa più importante). D’altro canto, però, Control a volte potrebbe anche venire un pochino più incontro al giocatore: sentirmi dire che un Altered Object sta seminando il terrore all’interno del Panopticon e che devo andarlo a fermare non mi è di molto aiuto nel localizzarlo quando suddetto Panopticon è uno degli ambienti singoli più grandi del gioco ed è strutturato su quattro piani, alcuni dei quali accessibili solo tramite levitazione. Specie se poi suddetto oggetto si trova dove ho già incontrato un altro Object of Power, che è esattamente l’ultimo posto dove mi viene in mente di andare a guardare. Almeno dirmi su che piano si trova, accidenti.

E se c’è un gioco, anzi, una serie di giochi che ha fatto del non dirti un accidente di nulla motivo di vanto, sono i titoli di From Software. In questa sede, non parlerò di Sekiro, di cui ho già scritto tempo fa; mi limiterò solo a dire che il momento in cui si arriva al castello di Ashina e dinanzi a noi si aprono più strade da percorrere è uno dei miei preferiti di un gioco che adoro. Parliamo invece del mio primo impatto con i soulslike, che fu proprio Dark Souls: Prepare to Die Edition, arrivato dopo tante suppliche e scongiuri anche su PC e descrittomi da tutti come il gioco che “tu che ti incazzi sempre devi assolutamente giocare” (grazie tante, eh). E va bene, allora proviamolo questo Dark Souls: installato, scampagnata nell’Undead Asylum, boss sconfitto senza nessun problema (falsissimo) e viaggio a scrocco verso la Firelink Shrine. E poi… eh, e poi?

“Sei morto”.
E poi LA MORTE.

Decido di esplorare un po’, di conoscere meglio i buffi e non particolarmente simpatici figuri che popolano questo strano posto, vado in giro, spacco qualche vaso, su per le scale, oh guarda un po’ lì ci sono dei forzieri spetta che faccio un salto a prenderli, ma giù di qua cosa ci sarà mai che è pieno di tombe e C’È UN MOTIVO SE È PIENO DI TOMBE. Saltano fuori due scheletri, che nella stragrande maggioranza dei giochi fantasy sono tipo uno dei nemici più sfigati dell’universo, in D&D sono challenge rating UN QUARTO, ma qui non siamo nei Forgotten Realms e gli scheletri se ti vedono ti fanno il culo e se provi a colpirli con le tue armi ti ridono addosso, ancora me li sento che fanno clac clac clac di fronte ai miei futili sforzi di prevalere sull’oscura magia che li anima. Il primo pensiero fu che, insomma, mi avevano avvertito tutti che il gioco era superdifficilissimo, magari se ci provo qualche altra volta ce la faccio. Il secondo pensiero (dovuto a quattro-cinque altre morti, di cui una dopo aver cercato di fuggire vigliaccamente) è stato che evidentemente mi ero perso qualcosa, forse non è proprio quella la strada dove devo andare, infatti ecco guarda ci sono delle scale, andrò di qua e finalmente la mia avventura potrà continuare.

Ecco, quelle scale portavano a New Londo e, come sa bene chiunque abbia giocato a Dark Souls, quello non è decisamente il punto dove la mia avventura avrebbe potuto avere inizio; e se non ci avete giocato, lungi da me rovinarvi il momento in cui scoprirete perché. A quel punto, ho fatto ciò che ogni persona decisa a preservare la sua sanità mentale avrebbe fatto: ho chiuso il gioco, ne ho cancellato ogni traccia dal mio hard drive e ci ho messo una pietra sopra (a Dark Souls, non all’hard drive). E la pietra lì è rimasta fino a qualche mese dopo, quando ne ho parlato con alcuni amici che mi hanno fatto notare che c’era una terza strada e che il posto dove dovevo andare era l’Undead Burg. E meno male che me l’hanno detto, perché poi i Dark Souls me li sono giocati tutti e me li sono anche goduti parecchio, e (dai che ce la facciamo a tornare in argomento) una parte importante di questo è stata la sensazione di scoperta che la serie ti fa provare di continuo: quel what’s behind next corner che ha tanto dettato la fortuna della serie.

Dark Souls 3. Un panorama della Ringed City.
Dark Souls 3 è indubbiamente uno dei miei giochi preferiti degli ultimi anni. Sì, nonostante Farron Keep.

Ed è proprio questa sensazione di avventura verso l’ignoto che piace a me. Non c’è nulla di male nei giochi che invece propongono una struttura lineare, senza velleità esplorative. Ma quelli che invece queste velleità le abbracciano e riescono ad implementarle con successo, a dare un motivo ai giocatori di andare al di fuori del sentiero battuto o di chiedersi quale strada percorrere ora, per me hanno sempre una marcia in più. È quel misto di timore e riverenza che provi quando ti avventuri in una zona nuova, aliena e che sai ti metterà alla prova, che fa tutta la differenza per me.

La lista dei giochi che, per un motivo o per l’altro, ritengo abbiano successo in questo non si esaurisce ovviamente in quelli nominati nelle (tante) righe qui sopra. Ci sono tanti altri titoli che mi hanno fatto provare la gioia del “trovare la strada”, anche se non sempre nello stesso modo. CrossCode, per esempio, è un action RPG con un open world dalla struttura relativamente lineare, ma ogni area nasconde segreti e tesori che richiedono spirito d’osservazione, precisione nei movimenti e talvolta anche l’uso del cervello per essere raggiunti. Oppure c’è Spelunky, che è un roguelike in cui trovare la strada per l’uscita richiede buon occhio e una discreta capacità di pianificazione per poter aggirare gli innumerevoli (e spesso letali) pericoli disseminati sulla nostra strada. Gli emuli di Dark Souls, quelli fatti bene, tipo Salt & Sanctuary. E poi ci sono i metroidvania: quei giochi che ho scelto di inserire nel titolo, ma di cui alla fine ho citato solo Hollow Knight. Ma che ci volete fare, la soglia psicologica delle duemila parole inizia ad avvicinarsi inesorabile ed è meglio non sforarla.

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