È possibile giustificare il game over?

Morte, fallimento e possibilità nel videogioco.

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
10 min readSep 11, 2020

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Poche cose evocano altrettanto efficacemente il videogame come il GAME OVER, quella scritta in caratteri cubitali che appariva sui monitor spessi e squadrati delle sale gioco, una volta esaurite tutte le vite disponibili. Forse quella definitività nel concetto di “over” non è stata mai più eguagliata con l’evolversi del design dei videogiochi e con il cambiamento del luogo in cui consumare la propria chance di vittoria: dallo sfavillio di luci e colori di un una serie di cabinati, all’ombra delle persiane calate della privata dimora.

Già, poiché la “morte” (o la sconfitta, in un’accezione più ampia) rappresentava una (reale) fine che era tanto del giocatore — obbligato a inserire altre monete per continuare — quanto di colui che si impersonava nella finzione drammatica. Che imbracciassimo una bocca da fuoco per sterminare alieni o non-morti, o che ci calassimo nell’arena per sgominare avversari via via più ostici, la fine giungeva inoppugnabile nel momento in cui il nostro protagonista “moriva”.

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House of the Dead (Sega, 1996).

I videogame, pur nella loro giovanile ingenuità (quantomeno circa le loro potenzialità espressive), applicavano una finitudine del “percorso dell’eroe”, in base alla quale la sconfitta era il termine dell’avventura. Pur nelle concessioni alla fruibilità dell’utente pagante (le diverse chance garantite al giocatore prima del game over), il videogioco aveva ben chiaro il valore della morte: l’impresa era tale in quanto ardua da compiersi, e la morte era una spada di Damocle che incombeva e nutriva di èpos le gesta dell’utente/protagonista vittorioso.

Non si tratta semplicemente di una natura più hardcore del videogioco nella sua prima forma; in realtà, forse anche inconsapevolmente, il medium videoludico non voleva rinunciare alla rilevanza di una morte che era prima di tutto dissolvimento del “mito. Se, in approssimazione, il racconto videoludico è innanzitutto un racconto “da” e “di” un individuo, la cui realizzazione personale è strettamente legata all’obiettivo ultimo verso cui incede, allora la morte dell’individuo è la morte del racconto (che senza il suo protagonista non ha più ragione di essere narrato).

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Utilizzando il filtro interpretativo del linguaggio filmico, può notarsi come il videogioco raramente riesca a trovare un’autonomia rispetto al p.o.v del personaggio giocante: che sia prima, seconda o terza persona, lo sguardo del giocatore/regista coincide quasi integralmente con quello del protagonista del racconto. Come il nostro Luigi ha rimarcato nel suo ultimo articolo su The Last of Us Part II, questo rappresenta una delle più grandi distanze fra il videogioco e il cinema.

Di più, il valore del viaggio — e del traguardo posto alla fine dello stesso — è tanto maggiore quanto più gravato dalla scure della morte, possibilità irreparabile in ogni momento. Allora era comprensibile che la sconfitta dell’eroe segnava la fine di quell’eroe, e la necessità per il giocatore di impersonare, astrattamente, un nuovo eroe: una storia interrotta — dunque una non-storia, se abbiamo parlato del racconto videoludico come un racconto dell’individuo in relazione al suo obiettivo finale — rendeva necessario iniziare una nuova storia.

Quando la fruizione casalinga del videogioco diviene prassi, parallelamente il medium videoludico si fa ancora più racconto consapevole. La “Nuova Partita” acquisisce sempre più una fungibilità narrativa, pur in esperienze ludiche tradizionalmente contrassegnate da una rilevanza perlopiù agonistica. Tutto ciò non fa che mettere sempre più in primo piano una delle grandi aporie del mondo videoludico: in che modo si può dare coerenza, nella diegesi, alla sconfitta — la morte — del protagonista? In che modo superare il fallimento, possibilità non ammissibile nel “racconto di vittoria” dell’eroe? Che giustificazione dare al game over nel videogioco divenuto sempre più racconto?

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Con la sua naturale evoluzione, anche generi storicamente più refrattari a un approfondimento narrativo cominciano a porre un occhio particolare sul racconto. E, dunque, anche sulla fine patologica del racconto.

The Dead Don’t Die

Il titolo del paragrafo mi fa da assist per un breve exscursus chiarificatorio sul medium cinematografico.

La chiarificazione consiste nel fatto che, diversamente dal videogioco, il cinema non incorre in problemi di incoerenza narratologica circa la morte; e per un motivo molto semplice. Anzi due. Innanzitutto, come detto sopra, il cinema è molto meno limitato dalla necessità di filtrare la rappresentazione del reale mediante il cono prospettico del soggetto: la sua morte è, in ogni caso, “esterna” alla m.d.p. (allo sguardo dello spettatore).

Ma soprattutto il ruolo dello spettatore è eminentemente passivo: la sua è una fruizione voyeuristica. Nel videogame, invece, il racconto necessita dell’agire del giocatore, il quale è dotato di libertà. Libertà che solo limitatamente può essere contenuta dall’autore. Libertà che si traduce in “libertà di fallire”, e dunque di morire. Lo scontro fra libertà dell’utente e codice dell’autore è una delle dialettiche cruciali per comprendere potenzialità e dissidi del videogame.

Generalmente, il videogioco ha scelto di ignorare la contraddizione. La sconfitta dell’eroe trova un suo dirompente rimedio nella facoltà per il giocatore di poter “salvare la partita” e ricaricare prima dell’interruzione. In altre parole, l’autore videoludico elimina la possibilità del fallimento: il game over diventa un glitch del continuum spazio-temporale, una realtà alternativa resettata nel momento in cui si carica la partita e si torna nel tracciato stabilito dallo sceneggiatore.

Il salvataggio dei progressi è divenuto così il più grande compromesso videoludico, e dunque la più grande rottura della sua coerenza interna. Non si tratta, ça va sans dire, dell’unico. Il videogioco ha sempre dovuto mediare fra l’accessibilità e la salvaguardia della propria ossatura comunicativa: ad esempio il tutorial, nella sua veste di salvifica apparizione di un deus ex machina che indica i “tasti” da premere. Che si tratti di una serie di comandi che appaiono a schermo (a proposito, l’HUD è un’altra di queste mediazioni) o di un personaggio che indichi X, O o R1 (parole letteralmente aliene per chi popola il mondo fittizio), in quel preciso istante siamo temporaneamente trasportati al di fuori delle “regole del gioco”, per scorgere la macchina che muove le sagome sul palcoscenico.

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Alcuni videogiochi hanno compiuto un’(auto-)riflessione sulla struttura che regge la finzione drammatica. Portal di Valve gioca consapevolmente con il canone prototipico del videogame, permettendo al giocatore di “fuoriuscire” dai livelli e sancendo la falsità della “torta”.

Cionondimeno, niente allontana il videogioco dalla condizione esistenziale umana, dalla “vita vera”, quanto la possibilità di avere sempre una seconda chance, di poter eliminare quanto fatto e di mutare le nostre azioni. Slegato dalla definitività della morte, il giocatore può esperire nel videogioco un superomismo che nasce dal poter sfogliare dinnanzi a sé un album di infinite immagini. Questo rappresenta il fascino irresistibile del videogioco, ma altresì la sua grande idiosincrasia: allontanandosi del concatenarsi deterministico di una e una sola realtà (quale è la nostra), trascina il giocatore in una dimensione di universi (im-)possibili che è tanto fulgida e abbaiante quanto artefatta e impagliata nel momento in cui il codice fa affiorare i fili che reggono l’impalcatura.

Pertanto che muoia pure atrocemente la nostra eroina dopo un salto sbagliato, o il nostro cavaliere fallisca pure la sequela di tasti da premere al momento giusto nello script imbastito dall’autore; nel reame del sogno possiamo vivere la morte ancora e ancora, fino a raggiungere “il migliore dei mondi possibili”. Idealmente, per colui che predispone il racconto interattivo, il videogiocatore non perde mai; non deve perdere mai.

Anche Braid di Jonathan Blow può annoverarsi fra le grandi opere della meta-comprensione videoludica. Non è casuale che lo sviluppatore indie ordisca una meccanica post-mortem che è strettamente avvinta alla peculiarità del gameplay imbastito: riavvolgere il tempo. La morte viene di fatto annullata proprio utilizzando, in maniera esplicita, il meccanismo (implicito e taciuto) del videogioco, il reset dell’errore.

Come detto, il game over che precede il nuovo retry è ormai una prassi. È la vergognosa verità che i “sodali della congiura”, con il tempo, hanno preso a guardare senza vedere. È interessante sottolineare come in alcuni casi, invece, quelli che potremmo definire come “dissidenti afflitti dal senso di colpa” abbiano giocato con questo cortocircuito, senza volerlo risolvere.

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L’opera di Shigesato Itoi, Mother 2 (conosciuto fuori dal Sol Levante come Earthbound) consapevolmente ondeggia sui confini della “monade”, allungando la testa spesso e volentieri al di fuori della finestra. Il non sequitur è uno degli strumenti più sfruttati nel gioco per suscitare straniamento e umorismo, e sovente i personaggi si riferiscono al gioco in cui abitano, utilizzando un linguaggio “estraneo” — alludendo ai comandi, ai salvataggi e via dicendo. La morte dei protagonisti viene pertanto trattata per quello che è: un invito al giocatore a riprovarci. Earthbound non nasconde la ferita, la ostenta.

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La stessa saga di Metal Gear, sin dalle sue prime istallazioni, si fa carico delle regole taciute del mondo del videogioco e provoca il giocatore sbattendogliele in faccia. Già in Metal Gear (1987), Hideo Kojima fa in modo che uno dei suoi personaggi sproni il giocatore ad abortire la missione e spegnere la console. La sconfitta del giocatore, sottolineata in maniera così enfatica — con il grande GAME OVER campeggiante su schermo, il jingle divenuto celebre e le voci degli amici che chiamano Snake — riceve proprio per questo una parodizzazione, un’autoironica iperbole. L’autore conosce l’impasse, non lo cela (e non lo risolve), ma lo converte in strumento comunicativo, riciclandone i limiti in materiale proficuo (Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty rappresenta, sotto questo aspetto, l’apice della produzione kojimiana).

Il fallimento come opportunità comunicativa

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Diversi sono gli esempi di prodotti che hanno operato un ripensamento della morte, o del fallimento, nel proprio tessuto narrativo: non più un bug da eliminare, ma una concreta possibilità — prevista — foriera di implicazioni.

Ho parlato a lungo, ad esempio, di Undertale e non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. L’opera di Toby Fox è così strettamente avvinta alla possibilità della morte da averla introiettata come “regola” del proprio universo narrativo. Di più, non solo la morte ma anche ciò che precede la morte vengono fusi in una “partita” che poche altre volte ha svolto una mimesi così coinvolgente del vivere umano. Undertale, in effetti, è anche l’ennesima dimostrazione di quanto siano fallaci le ideologie che legano a un realismo estetico e narrativo tout court le chance migliori di essere fedele specchio del reale.

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Il sogno (o, meglio, l’incubo) miyazakiano si nutre di una semantica della morte, che informa la natura del souls-like fin nelle sue radici ludiche. Non solo la ripetitività, il ciclo di distruzione-rinascita, fonda la narrativa dell’universo dei Souls (dunque non distruggendone la coerenza narrativa), ma si lega in tal modo indissolubilmente all’eventualità, tutt’altro che remota, che il giocatore perda. Anzi, la morte e il nuovo tentativo (via via più efficace, reiterandosi) rappresentano la modalità ludica in cui Hidetaka Miyazaki comunica il processo di lenta erosione della prigione senza fine in cui il protagonista soulsiano si ritrova recluso.

Sin da Demon’s Souls, Miyazaki può dunque fare a meno del grande compromesso, il caricamento dei progressi precedenti la sconfitta, e facendosi carico del fallimento del giocatore, lo utilizza come pietra angolare del proprio progetto creativo. Il mito miyazakiano contempla la morte (del protagonista, dei comprimari, del mondo) come destino ineludibile del proprio racconto.

Lo stesso crinale segue l’ultima opera diretta da Yoko Taro, NieR: Automata. Evitando di rivelare più di quanto necessario, il creativo nipponico ordisce uno spettacolo di maschere in cui il fallimento degli attori non solo viene contemplato come concreto outcome degli eventi (diverse volte anche in maniera smaccatamente ironica), bensì considerato come unico vero sbocco possibile. In tal modo, non solo ogni morte è contestualmente ricompresa nel tessuto narrativo, ma anche ogni concessione alla fruizione del giocatore è giustificata (finanche la presenza stessa di un menu di gioco). Il risultato complessivo è un’opera che, ragionando sui concetti inerenti la possibilità del videogioco di garantire una ri-proponibilità dell’esperienza, pure a fronte dell‘eventualità del fallimento (cioè della morte), ne avanza un superamento. Se il videogioco non è in fondo che questo, ovvero un ciclo senza fine di morte e rinascita, allora l’unica alternativa possibile è “interrompere il ciclo”.

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“Il game over in questo senso può essere visto come un artificio che cancella letteralmente dalla diegesi una realtà possibile, riportando il mondo di gioco al suo stato ‘preferenziale’. Nier: Automata e altri titoli più o meno autoriflessivi si appropriano di questa ‘cancellazione’: l’universo narrativo in cui il giocatore ha fallito, piuttosto che essere riassorbito in quello in cui il giocatore trova il modo giusto per proseguire, diventa quello effettivo che porta il racconto alla fine.” — Stefano Caselli

Dunque ecco una delle soluzioni: ricomprendere il fallimento nel racconto. O abbinare a ogni fallimento un racconto, come fa uno dei videogiochi di cui ho scritto recentemente, Papers, please. Come detto in premessa, se il gioco molto raramente riesce ad affrancarsi da una visione irrimediabilmente soggettiva del racconto, allora la morte dello stesso ne segna la fine. Ma se, invece, il racconto non fosse uno ma si frammentasse proprio in base al numero di morti? Papers, please ha 20 (+1) finali, corrispondenti ai diversi game over cui il giocatore può giungere: 20 (+1) storie diverse.

Si potrebbero citare, inoltre, esperienze videoludiche nelle quali la morte ha una definitività ludica ancor prima che narrativa: qui su Frequenza Critica abbiamo affrontato da poco il tema dei Roguelike. In un certo senso questo genere ha guardato al passato, ripescando la brutalità senza appello del fallimento di quelle esperienze.

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Il discorso potrebbe estendersi ulteriormente ricomprendendo la meccanica del perma-death.

O, ancora, eliminare la possibilità stessa del fallimento, una soluzione tranchant ma non per questo poco coraggiosa; ridurre, infatti, quasi del tutto le conseguenze dell’errore può comportare per taluni giocatori una diminuzione del coinvolgimento. Si pensi a opere come Journey, dove al giocatore non è data facoltà, con le sue mancanze, di interrompere il procedere stabilito dall’autore.

Ecco allora uno dei paradossi più curiosi della rappresentazione videoludica: uno degli strumenti più portentosi di mimesi del reale consiste proprio nella ricomprensione della possibilità della morte nel “testo” dell’opera interattiva, ovvero proprio ciò di cui nessuno di noi può fare diretta esperienza nella vita. Viceversa, il virtuale rifiuto di una fine non prevista (come detto, solitamente il videogioco implicita la morte come intoppo, qualcosa da cancellare con un caricamento precedente) depotenzia la percezione della stessa da parte del giocatore: che importanza può mai avere “morire” se tanto c’è un save state che può annullare mondi possibili a noi sgraditi?

E cosa c’è di più alieno al nostro sentire quotidiano della consapevolezza di avere sempre una chance di modificare quanto fatto?

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.