Ghost Boat

“Quante madri? E quante altre persone?”

Episodio 10: La nostra ricerca dei profughi dispersi ritorna al punto di partenza. Ma come affrontare un incubo che non avrà mai fine?

Monica Cainarca
24 min readFeb 1, 2017

Di Eric Reidy
Fotografia di Gianni Cipriano, traduzione di Monica Cainarca

Parte 10 dell’inchiesta di Ghost Boat (123456789 10)

Una barca che affonda, cadaveri galleggianti e vestiti sparsi in acqua nel disegno di un bambino sopravvissuto al naufragio di un barcone di profughi al largo della Sicilia.

D’estate Khartoum soffoca sotto la calura. La sabbia color ruggine spinta dai venti del deserto invade le strade e fluttua sospesa nell’aria, sollevata di continuo dal traffico lento, si appiccica alla pelle e copre di una nebbia sottile la skyline della città, un profilo di bassi edifici di cemento.

L’aria è così densa di calore che di giorno la vita scorre a ritmo molto lento. La città si rianima solo quando la temperatura scende – anche se solo di poco – dopo il calare del sole.

Il paesaggio urbano è una griglia di anonimi vicoli sterrati e malmessi che sfociano sulle vie principali intasate dal traffico. L’uniformità del panorama è spezzata qua e là da qualche stranezza architettonica, come l’enorme edificio a forma d’uovo finanziato all’epoca dal dittatore libico Muammar Gheddafi; ma per il resto, la capitale del Sudan non ha nulla di straordinario.

Non c’è davvero un granché qui che possa attirare visitatori da fuori, soprattutto in piena estate. Ma è qui che mi trovo nella tarda serata di un giorno di luglio, il mese più caldo dell’anno, con temperature diurne che superano i 40 gradi.

Le vie di Khartoum, Sudan. (via Getty Images)

Sono seduto a un tavolo nel cortile di ghiaia di un ristorante vicino al centro di Khartoum, a mangiare qualche boccone di un fritto unto di pesce pescato dal vicino Nilo. Accanto a me, seduto su un basso sgabello, c’è Yafet Isaias Andebrhan – l’uomo la cui storia è inaspettatamente giunta a dominare la mia vita per tutto lo scorso anno.

È più alto e più massiccio di quello che mi aspettavo dalle foto che avevo visto, con i capelli tagliati corti e il pizzetto sottile che ogni tanto tampona con un tovagliolo per asciugare il sudore.

“Le voci che circolavano ci davano speranza”, dice, volgendo lo sguardo verso di me per un secondo. “Secondo alcuni erano in Tunisia, secondo altri erano finite da qualche [altra] parte. Ma tutte quelle voci non sono vere”.

Yafet sta parlando della moglie Segen e della figlia di due anni, Abigail.

Sono scomparse senza lasciare traccia alla fine di giugno 2014. È da un anno che cerco di rintracciarle – e di scoprire che fine abbiano fatto le altre 241 persone scomparse insieme a loro, in un caso che è diventato noto come Ghost Boat, “la barca fantasma”.

Fin quando ho iniziato questa ricerca, sapevo che un giorno avrei dovuto incontrare Yafet, ma non immaginavo che al momento dell’incontro mi sarei presentato a mani vuote.

Quando sono entrato in contatto con Yafet nei primi mesi del 2015, Segen e Abi erano già scomparse da sette mesi.

Segen

All’epoca, avevo solo sentito parlare della crisi dei profughi dai titoli dei giornali. L’ondata di migrazione clandestina attraverso il Mediterraneo non aveva ancora assunto le proporzioni gigantesche ormai tristemente note a tutti, ma quell’anno, l’anno della scomparsa della barca, aveva già iniziato a intensificarsi. Nel corso di tutto il 2014, più di 170.000 persone avevano rischiato la vita per attraversare il mare e più di 3.000 erano annegate lungo il percorso. Quel barcone di profughi era scomparso da qualche parte senza lasciare traccia, nel caos di uno dei fine settimana più intensi di quell’estate, quando più di 5.000 altre persone furono recuperate dal mare e portate in salvo.

Le informazioni da cui partire per il nostro lavoro d’inchiesta erano molto scarse.

Nelle prime ore del 28 giugno 2014, almeno 243 persone erano partite da una fattoria sulla costa libica. La maggior parte veniva dall’Eritrea, come Segen e Yafet, in fuga da uno dei regimi più repressivi del mondo. Il piano era di seguire l’itinerario di tutti gli altri profughi partiti prima di loro: imbarcarsi alla volta dell’Europa su un peschereccio fatiscente mandato in mare dai trafficanti di esseri umani.

Quel gruppo avrebbe dovuto arrivare in Italia nel giro di un paio di giorni. Ma non sono mai giunti a destinazione. Sono semplicemente svaniti.

Quando un barcone con a bordo centinaia di migranti fa naufragio nel Mediterraneo, fa quasi sempre notizia. Eppure, in questo caso, non sembrava importare a nessuno, a parte le famiglie dei dispersi. L’attenzione dei media internazionali era inesistente, le forze dell’ordine erano indifferenti, non c’era stata reazione da parte delle organizzazioni umanitarie; e sembrava che non esistesse nemmeno la minima testimonianza dell’accaduto. C’erano solo frammenti di informazioni che lasciavano intravedere la possibilità di avere delle risposte, ma non erano mai abbastanza. Circolavano voci e ipotesi di ogni tipo, una dopo l’altra, tutte altrettanto vaghe e incerte.

Eric Reidy sulla costa della Sicilia tra i pescherecci su cui hanno viaggiato i profughi.

Passare al setaccio i frammenti confusi di indizi per capire quali fossero vere e quali fuorvianti e verificare le fonti è stato un lavoro frustrante, a volte quasi esasperante. E ogni volta ci sembrava sempre di tornare di nuovo al punto di partenza: alla ricerca faticosa di informazioni che potessero effettivamente svelare che cosa fosse realmente successo.

Con il passare del tempo, l’inchiesta si era impantanata fino a restare bloccata del tutto. Abbiamo setacciato l’Italia, la Tunisia e la Libia, ma le prove tangibili che ci servivano – nonostante ogni nostro sforzo per trovarle – sembravano non esistere proprio.

Quello stesso giorno, qualche ora prima, ho incontrato Yafet fuori dal mio albergo. Siamo andati a piedi fino al suo piccolo e buio appartamento, dove ci eravamo fermati a bere caffè eritreo, forte e dolce. Yafet, curioso e intelligente, apprezza l’opportunità di parlare con qualcuno che viene da lontano ma ha interessi simili.

Siamo entrati facilmente in sintonia, parlando di politica e storia americana, africana e del Medio Oriente; mi ha parlato della sua vita in Sudan e mi ha chiesto di raccontargli qualcosa della mia vita. Ha un modo di parlare pacato e un’aria mite e composta, con una dignità che maschera il pesante fardello che si porta dentro.

Ma la sera, al ristorante di pesce, circondati dal rumore di sottofondo di clacson e motorini, ha l’aria distrutta, con le spalle accasciate in avanti e lo sguardo assente fisso sulla ghiaia sotto i suoi piedi.

Guardando Yafet seduto accanto a me, so cosa sono venuto fin qui a dirgli. Non abbiamo risolto il mistero della scomparsa di Segen e Abi – e non credo che lo risolveremo mai. Dopo un lungo lavoro di inchiesta e con il sostegno di migliaia di lettori, abbiamo esaurito ogni possibile opzione e siamo rimasti senza risposte.

Mi sono preparato a questo incontro immaginando la conversazione un’infinità di volte, ma ora che ci ritroviamo faccia a faccia le parole non sembrano voler uscire.

Dopo una pausa, Yafet fa un sospiro pesante e dice chiaramente quello che finora era rimasto sottinteso tra noi: “Credo che arrivati questo punto abbiamo già fatto tutto quello che potevamo. Non ci resta più niente”.

Tutto quello che posso dirgli in risposta è che la penso allo stesso modo.

E così eccoci qui, alla fine dell’inchiesta di Ghost Boat. Dopo tutto il nostro faticoso lavoro, dopo tutto l’aiuto che i lettori ci hanno dato, dopo ogni frammento di indizi e piste che abbiamo provato a seguire, ci sono solo vicoli ciechi e domande senza risposta. Senza nuove prove, senza poter contattare le persone che conoscono la verità, non c’è modo di far andare avanti la ricerca di Segen, Abi e le altre persone disperse. La loro scomparsa probabilmente rimarrà un mistero.

Ma non sembra una conclusione sufficiente.

Alcuni dei 243 dispersi. I volti sono nascosti per proteggere loro e i loro familiari in Eritrea.

Duecentoquarantatré persone sono ancora disperse, e i loro familiari vivono in una sorta di limbo crudele, sospesi senza risposte tra speranza e disperazione. E non sono gli unici in questa situazione.

Sotto diversi aspetti il caso di Ghost Boat è unico, ma la crisi che lo ha causato è sempre più pressante, una fonte costante di tragedie in tutto il Mediterraneo – altri dispersi, altre famiglie tormentate.

Solo negli ultimi tre anni, più di diecimila persone sono annegate nel tentativo di raggiungere le coste europee. Nella maggior parte dei casi, i loro corpi non sono mai stati recuperati dal mare; tra quelli ritrovati, solo pochi sono stati identificati. Il 2016 è stato l’anno più letale mai registrato: il numero delle vittime è salito a quasi cinquemila. Ciò significa che migliaia di altri familiari si trovano nella stessa situazione di Yafet: rimasti senza i loro cari, senza risposte, senza una reale speranza che il loro incubo possa finire.

La portata del problema è enorme e le soluzioni sembrano andare oltre le nostre capacità come singoli cittadini. Ci sono cose che si potrebbero fare – l’Europa potrebbe cambiare le sue politiche in materia di asilo e immigrazione, il Sudan potrebbe smettere di perseguitare i profughi, la dittatura in Eritrea potrebbe finire – ma è improbabile che la situazione cambi, soprattutto ora che di fronte a questa crisi le nazioni occidentali stanno virando sempre più verso un atteggiamento di chiusura. Il problema andrà avanti finché continueranno a esserci persone che sentono di non avere altra scelta che attraversare il mare.

“Anche mia moglie”, dice Yafet. “Continuavo a pregarla di non partire in quel modo. Ma, alla fine... lei non riusciva a restare qui. Ha scelto lei quella via di fuga, e sapevamo che era pericolosa”.

Sono sempre più le persone costrette a fare questa scelta – e sempre più i nomi aggiunti agli elenchi delle vittime e dei dispersi, sempre più famiglie lasciate indietro ad affrontare la perdita. Come fanno queste persone – persone come Yafet – ad andare avanti, con questo vuoto enorme al centro delle loro vite?

È una domanda a cui mi è sempre parso impossibile rispondere. Non solo avevo imboccato un vicolo cieco nelle indagini, avevo anche toccato i limiti delle mie capacità di pensare: l’assenza di risposte è stata demoralizzante. In qualche modo anch’io, come i parenti dei dispersi, stavo lottando per trovare il modo di andare avanti.

È stato allora che ho sentito parlare di Simon Robins.

Ex combattenti maoisti in coda all’uscita da un campo nel centro-sud del Nepal, 3 febbraio 2012. (Foto di Getty Images)

Quando Robins è arrivato per la prima volta in Nepal nel 2006, come delegato per il Comitato Internazionale della Croce Rossa, il Paese stava iniziando a emergere da una guerra civile durata dieci anni. Per dieci anni, i ribelli maoisti avevano combattuto per rovesciare la monarchia e porre fine alla discriminazione di casta nella nazione a maggioranza indù.

Alla fine della guerra, i ribelli avevano preso il sopravvento, ma più di sedicimila erano morti e milletrecento erano scomparsi, vittime di sparizioni forzate commesse da entrambe le parti. Il loro destino restava un mistero e la loro assenza una ferita aperta per le loro famiglie, e per la società.

“La questione dei dispersi nel conflitto improvvisamente divenne qualcosa di cui si poteva parlare apertamente”, mi racconta Robins al telefono. “Perché la guerra era finita”.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa invia delegati in alcuni dei contesti più difficili e pericolosi del mondo – società dilaniate da guerre e conflitti – per rispondere alle esigenze umanitarie della popolazione locale. Il loro lavoro consiste nel provvedere a qualsiasi cosa sia necessaria, dall’assistenza sanitaria al sostegno economico, dalla lotta contro la violenza sessuale all’impegno per garantire il trattamento umano dei detenuti politici. Si occupano anche di rintracciare le persone scomparse.

Durante i suoi due anni in Nepal, Robins ha trascorso gran parte del tempo viaggiando per il Paese a parlare con le famiglie dei dispersi. Quello che ha visto seguiva un andamento simile alle esperienze vissute nelle sue missioni precedenti in altri Paesi – e c’era qualcosa che lo preoccupava.

I casi di persone scomparse venivano gestiti come parte dello sforzo di rendere giustizia alle vittime dei crimini di guerra. L’attenzione si concentrava sul diritto alla verità per le famiglie: il diritto di sapere che cosa fosse successo. Ma per Robins questo approccio era problematico.

“La stragrande maggioranza delle persone non ha avuto risposte, e realisticamente non le avrà mai”, dice.

L’enfasi sulla verità ha spesso creato aspettative irragionevoli sulle possibilità di arrivare a scoprire che fine avessero fatto i dispersi, senza affrontare realmente la questione di come offrire sostegno ai parenti sospesi in un limbo di incertezza. In parole povere, questo approccio non è stato in grado di rispondere alle reali esigenze delle persone più colpite dalla situazione.

Dopo aver lasciato il Nepal, Robins ha deciso di dedicarsi a studiare il problema più a fondo.

“Spinto dal fatto che gli approcci usati finora per affrontare questo problema chiaramente non stavano funzionando, volevo capire quali altri approcci avremmo potuto adottare”.

Ha dovuto affrontare la stessa domanda che è stata al centro dell’esperienza di Yafet: come andare avanti con la tua vita quando non sai se i tuoi cari sono vivi o morti?

La risposta, ha scoperto, si poteva trovare nel concetto della cosiddetta “perdita ambigua”.

I volantini con i volti dei dispersi affissi sui muri vicino al World Trade Center nei giorni successivi all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 a New York. La maggior parte delle vittime non è stata mai ritrovata. (Foto di Getty Images)

Poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, la dottoressa Pauline Boss ricevette una telefonata. Quasi tremila persone avevano perso la vita, ma nei giorni e nelle settimane di shock e lutto che seguirono era impossibile sapere chi esattamente si trovasse nelle Torri al momento del crollo. I parenti disperati giravano per tutta Lower Manhattan con le foto dei loro cari, nella speranza di trovare delle risposte.

Alcuni erano riusciti a scappare e furono poi ritrovati vivi. Ma nell’impatto di metallo e vetro e nell’inferno a lenta combustione che continuò per cento giorni, i corpi di molte delle vittime erano stati completamente annientati, straziati, inceneriti. I resti dei corpi di più di millecinquecento delle persone che morirono quel giorno non sono mai stati ritrovati.

All’epoca, Pauline Boss insegnava psicologia all’Università del Minnesota. Quando rispose al telefono, la persona all’altro capo le fece una richiesta insolita: andare a New York a gestire un programma clinico per le famiglie delle persone scomparse. Un lavoro per il quale probabilmente non si sarebbe trovato un candidato migliore di Pauline in tutto il Paese.

La sua esperienza nel campo era iniziata negli anni 1970, quando aveva condotto colloqui con le mogli dei piloti militari andati dispersi in azione in Vietnam e nel Sud-Est asiatico. Da quelle conversazioni iniziali, aveva iniziato a sviluppare la teoria che poi chiamò della “perdita ambigua” : una situazione di perdita poco chiara derivante dal non sapere se una persona cara è viva o morta, assente o presente.

Prima di accettare la proposta e andare a New York a lavorare con i parenti delle vittime dell’11 settembre, Pauline Boss aveva dedicato trent’anni alla ricerca su quella teoria, scrivendo decine di articoli accademici e un libro autorevole sul tema.

Così, quando Robins durante le sue ricerche si imbatté nel lavoro di Pauline, capì subito che era proprio quello che cercava: sembrava affrontare perfettamente il problema che Robins stesso aveva incontrato durante la sua ricerca sul campo.

“Quando si tratta di scoprire la verità, il concetto della perdita ambigua ha ben poca utilità”, mi spiega Robbins. “Ma ha un’utilità enorme nel dare sostegno ai familiari, aiutarli ad affrontare l’assenza di verità”.

Sembra semplice, ma per la maggior parte degli operatori umanitari è anche controintuitivo: un approccio di trattamento che affronta traumi e perdite non cercando di risolverli, ma accettando che non possono essere risolti.

E ora Robins sta applicando questo approccio alla crisi dei profughi con un’iniziativa di ricerca dedicata, il Mediterranean Missing Project.

“Le vittime sono diventate il punto focale dell’attenzione dei media”, dice. “Ma i familiari restano invisibili, persino nei casi più tragicamente noti. Il bambino ritrovato cadavere sulla spiaggia è su tutti i giornali, non le storie delle famiglie… non sappiamo davvero nulla dei familiari delle migliaia di persone che muoiono o scompaiono nel nulla”.

Stava parlando di persone come i familiari dei dispersi al centro dell’inchiesta di Ghost Boat.

In molti modi, tutto il popolo eritreo nel suo complesso è alle prese con questa perdita ambigua. Da anni la comunità eritrea sta andando lentamente in frantumi.

Alcuni dei 243 dispersi. I volti sono nascosti per proteggere loro e i loro familiari in Eritrea.

Una sera in Sudan vado a trovare Yafet a casa sua, un piccolo appartamento nascosto dietro una recinzione di lamiere ondulate di alluminio, in uno dei vicoli sterrati e accidentati di Khartoum. All’interno, le pareti sono bicolori: rosa opaco in alto, beige in basso. Dal televisore in un angolo si sentono i dialoghi di una soap opera hindi doppiata in arabo; in sottofondo c’è il ronzio costante del ventilatore e di un condizionatore installato in una finestra vicino al soffitto.

La stanza principale è ordinata. Un divano infossato poggia contro una parete, di fronte una poltrona massiccia e un letto singolo. Lo spazio è accogliente, una luce fioca filtra da un paio di piccole finestre. La seconda stanza poco più grande con due letti è nascosta da una sottile tenda bianca.

È in questo appartamento che Yafet e Segen vivevano, con la piccola Abi e la figlia maggiore, Shalom. Oggi sono rimasti solo Yafet e Shalom a condividere lo spazio con un’altra famiglia: una donna eritrea di mezza età, sua figlia adolescente e suo nipote di quattro anni.

Il bambino mi osserva mentre mi siedo sul divano – un bianco che non parla la sua lingua – e dice a Yafet che assomiglio a suo padre.

“Non ha mai visto suo padre”, dice Yafet.

Il padre del bambino, come tanti, è rimasto bloccato in Eritrea, arruolato nel servizio nazionale di leva obbligatoria, senza possibilità di uscirne. Il sistema prende uomini e donne nel fiore degli anni e li manda a languire in angoli remoti del Paese, separando le mogli dalle loro famiglie e i padri dai loro bambini. Chiunque osi schierarsi contro questo sistema rischia pesante. Secondo le stime di Amnesty International, il governo eritreo ha messo in carcere almeno diecimila persone solo per il fatto di avere espresso dissenso. Di molti di loro non si è saputo più nulla.

If it’s not indefinite military conscription or forced disappearances by the government, then it’s the water that is breaking the Eritrean community apart.

Ma a mandare in frantumi la comunità eritrea non sono solo la leva militare a tempo indeterminato o le sparizioni forzate da parte del governo: è il mare a creare altre lacerazioni.

“Quasi ogni famiglia ha perso almeno uno o due dei suoi cari in mare”, dice Yafet. Un tempo, era il conflitto con la vicina Etiopia a separare uomini e donne dalle loro famiglie. “Dopo la guerra, stiamo perdendo i nostri giovani per mare e nel deserto”.

Sentiamo parlare dei naufragi nelle notizie.

“Si sente solo che sono morte cinquecento persone. Tutto lì. Ma chi erano quelle cinquecento vittime? Quanti padri c’erano tra loro? Quante madri? Quante altre famiglie?”, chiede Yafet.

“Ogni persona ha almeno quattro o cinque parenti che dipendono da lei. Non è un danno o una perdita solo per cinquecento persone, è una perdita per una grande comunità. La comunità viene trasformata per sempre”.

Alcuni dei 243 dispersi. I volti sono nascosti per proteggere loro e i loro familiari in Eritrea.

L’obiettivo del Mediterranean Missing Project è mettere in primo piano le esperienze dei parenti dei dispersi. Per le vittime in mare c’è una sorta di tragica risoluzione; Robins e il suo team lavorano per promuovere politiche migliori che riducano la sofferenza di chi resta.

Per la loro ricerca hanno intervistato quasi cento familiari dei dispersi. Quello che hanno scoperto è una serie di somiglianze tra i parenti delle vittime scomparse in conflitti armati e i parenti dei dispersi in mare.

Molti familiari si fissano sulla scomparsa dei loro cari al punto da trascurare altri aspetti delle loro vite. I disturbi del sonno sono molto comuni. Soffrono di incubi, sognano i parenti scomparsi, sentono una profonda confusione sulla loro identità: sono ancora un marito? Sono ancora una moglie? Vivono con un senso generale di stasi, un’incapacità di di andare avanti nella vita.

In casi estremi, sono stati riscontrati anche problemi psichiatrici: c’è chi sente le voci, ha allucinazioni, avverte l’impulso di fare del male a qualcuno – persino ai propri parenti sopravvissuti.

Tutte le culture hanno i propri modi di affrontare la morte. “Ci sono rituali e processi per assorbire e comprendere la perdita… Cerimonie che coinvolgono anche con la comunità e servono a dare una conferma e un qualche senso a quella perdita”, spiega Robins.

Ma non esistono rituali che possano creare significato quando le persone semplicemente svaniscono nel nulla, ed è questo a rendere la situazione estremamente stressante. I parenti dei dispersi hanno opinioni discordanti su come affrontare l’accaduto, le comunità fanno pressioni perché voltino pagina, si creano attriti perché manca un’intesa comune.

Molti psicologi e operatori dei diritti umani vedono il dolore dei parenti attraverso la lente del disturbo da stress post-traumatico, che è causato da un singolo evento accaduto nel passato, qualcosa che forse si può affrontare e risolvere.

La risposta istintiva è quindi di applicare lo stesso approccio ai parenti dei dispersi. Ma la perdita ambigua non è un’esperienza isolata con un chiaro inizio e una chiara fine. È un trauma continuo che non finisce mai. E in un mondo che privilegia le conclusioni nette e i finali risolutivi, è un concetto difficile da accettare.

L’obiettivo terapeutico non è superare un episodio di perdita ambigua, ma imparare ad andare avanti e continuare a vivere pur senza avere le risposte. Il lavoro di Pauline Boss, Simon Robins e di altri che hanno studiato questi casi è aiutare i parenti delle vittime a dare un senso alla loro perdita e imparare a convivere con l’ambiguità. È un approccio che ha prodotto risultati positivi, anche tra i parenti delle vittime dell’11 settembre.

Quando mi sono imbattuto in questa idea, è stato come trovare il pezzo mancante di un puzzle, un quadro di riferimento per comprendere i sentimenti di frustrazione e tristezza e quella speranza disperata che vedevo in Yafet e negli altri parenti dei profughi scomparsi. E in un certo modo, per quanto limitato, aveva un senso anche per me personalmente.

Essere in grado di dare un nome a quello che stavo affrontando mi ha aiutato a comprenderlo un po’ meglio. Ho trovato un po’ di conforto nel pensiero che ci sono modi di andare avanti, anche quando non ci sono risposte.

Ma mi sentivo ancora turbato pensando al punto in cui ero arrivato. Non riuscivo a scacciare la fastidiosa sensazione che mi stavo arrendendo, che avrei dovuto fare di più, che forse se solo avessi insistito ancora oltre…

Poi ho capito che era proprio lì il problema. Qualsiasi cosa facciamo, non potremo mai sapere cosa è successo. Come si può imparare ad accettarlo, a conviverci? E cosa ancora più importante, cosa significa per qualcuno come Yafet? Che cosa farà adesso?

Yafet e Shalom insieme in Sudan, 2016. (Foto di Eric Reidy)

Ogni giorno da quando Segen è scomparsa, Yafet ha dovuto svegliarsi, badare a Shalom e andare a lavorare, per guadagnare i soldi che gli permettono di mantenere intatti i ritmi fondamentali della loro vita. Ogni giorno ha dovuto recitare un ruolo per evitare di essere arrestato o espulso. È una situazione che ha messo costantemente alla prova la sua intelligenza, il suo istinto, la sua capacità di sopravvivere. Non è stato facile, ma non ha avuto altra scelta. In un certo senso, la sfida gli ha permesso di restare a galla, invece di lasciarsi affondare sotto il suo pesante fardello emotivo. Ma è tutto quello che sta facendo, tenersi a galla?

Non ha mai pensato di amare un’altra donna. Il legame che aveva costruito con Segen da quando si erano innamorati alle scuole superiori ha tenuto forte anche durante gli anni di separazione e, ora, persino nell’incertezza e nell’assenza più insopportabile. Ma ha pensato di risposarsi. Senza Segen, si preoccupa di Shalom, ha dubbi sulla sua capacità di allevarla da solo.

Se Yafet dovesse risposarsi, Shalom avrebbe una figura materna nella sua vita. Ma, per ora, Yafet ha deciso di lasciar stare. E se Segen dovesse tornare? Non può semplicemente voltare pagina.

Yafet e Shalom insieme in Sudan, 2016. (Foto di Eric Reidy)

Così ha optato per un un’alternativa non proprio soddisfacente. Le due donne che ospita a casa sua ricambiano badando a Shalom mentre Yafet è al lavoro. È una soluzione comoda, ma non lo rende felice – è solo l’unico modo in cui può permettersi di avere qualcuno che si occupi di sua figlia mentre lavora.

“Sono un padre single”, dice, seduto sul lettino di fronte. “Ho una figlia. Mia figlia vuole qualcuno che si prenda cura di lei. Io devo andare a lavorare. Non abbiamo altri parenti qui. Devo per forza affidarla a degli estranei”.

Yafet va d’accordo con le sue coinquiline e si occupa del bambino come se fosse suo figlio. Ma la comunità eritrea di Khartoum è transitoria: molti restano solo per brevi periodi prima di spostarsi in Libia per tentare la traversata in mare. Cinque o sei donne diverse hanno alloggiato da Yafet per aiutarlo a badare a Shalom negli ultimi due anni. Anche questa ultima famiglia rischia di partire prima o poi.

“Per un po’ Shalom ha chiamato mamma ogni donna che veniva a stare qui per aiutarci. Quando una se ne andava e ne arrivava un’altra, chiamava mamma anche quella. L’ultima volta mi ha chiesto: quante mamme ho?”

Yafet accetta la situazione perché non ha rinunciato alla speranza che Segen e Abi possano tornare.

“Io continuo ad aspettarle”, dice, gli occhi che si velano per un momento di lacrime. È l’unico momento in cui il suo dolore rischia di tracimare durante la mia visita. “Non sono senza speranza... Non c’è niente che possa farmi avere più speranza, ma non c’è niente che possa farmela perdere”.

Nemmeno sapere che potrebbe non scoprire mai la verità?

“Certo, ora sarà più difficile di prima”, dice.

Alcuni mesi fa Yafet era stato fermato dalla polizia. Era una domenica e stava tornando a casa dopo essere stato in chiesa, quando i poliziotti hanno fermato l’autobus su cui viaggiava. Tutti a bordo erano eritrei o etiopi, quasi tutti senza documenti – dopo tutto, è praticamente impossibile per gli stranieri poveri mantenere legalmente la residenza a Khartoum.

Yafet e gli altri erano stati portati in una stazione di polizia e messi in cella. A chi pagava una tangente era consentito andarsene. Gli altri erano stati trattenuti finché non riuscivano a pagare abbastanza soldi o a negoziare altri modi di cavarsela. È stato un caso di estorsione.

Queste retate sono un evento abituale nella vita quotidiana degli stranieri, soprattutto eritrei ed etiopi, che vivono ai margini più poveri della società di Khartoum. La maggior parte dei fermati torna libera dopo un paio di giorni, ma a volte alcuni vengono spediti nei campi profughi ufficiali nell’est del Sudan o trasportati oltre il confine, in Eritrea. Dipende tutto da cosa decidono gli ufficiali di polizia ogni volta.

Yafet era stato in carcere tre giorni. Per tutto quel tempo, la figlia Shalom era a casa da sola e Yafet aveva dovuto chiedere ai suoi vicini di badare a lei.

L’esperienza lo aveva scosso.

“Devi avere paura”, mi dice Yafet. “Ogni volta che vedi i poliziotti o vedi che ci sono retate in corso, devi andartene via subito e se sei uno come me devi fare finta di essere un sudanese… È tutto un gioco”.

Non sa mai quando il gioco finirà male. Prima che succeda, sta cercando una via d’uscita.

Yafet non vuole correre il rischio di attraversare il mare. “Non voglio farlo. È un rischio troppo grande, soprattutto avendo una figlia. Mia moglie è scomparsa. Non voglio tentare un viaggio pericoloso come questo. Non voglio attirare altri problemi”.

Ma è anche difficile per lui accettare il Sudan come la sua unica opzione.

“Sto solo cercando un posto libero, un posto dove posso far crescere bene mia figlia; darle un’istruzione. Un posto anche per me – dove poter vivere essendo me stesso. Dove non dover più recitare... non voglio più vivere così. Non c’è libertà”.

Per questo Yafet sta facendo domanda di asilo politico in Australia. Là, pensa, Shalom potrà avere una migliore istruzione e lui potrà finalmente vivere libero. Sua sorella vive lì, un fatto che aumenta le sue possibilità. Ma si tratta pur sempre di una scommessa azzardata. I tassi di accettazione sono bassi e dovrà aspettare anni prima di ricevere una risposta. Per un profugo che non è disposto a rischiare la traversata in mare, non c’è altra scelta.

Nel frattempo, sta cercando di trovare un lavoro migliore. Shalom ha appena iniziato la scuola. Yafet mi ha scritto dopo la mia visita per dirmi che le piace andare a lezione ed è entusiasta di fare i compiti.

Chiedo a Yafet cosa vuole per il futuro di sua figlia.

“Voglio solo raccomandarle di essere una brava ragazza, continuare a studiare, essere disciplinata. Ma quello che voglio dipende da lei”.

Yafet vuole che la figlia abbia la libertà di scegliere il proprio percorso, le opportunità che lui non ha avuto. Viste le restrizioni del vivere in Sudan, potrebbe essere un sogno difficile da realizzare.

Oggi la vita di Yafet è spinta in direzioni diverse: da una parte, non può voltare pagina dimenticando il vuoto straziante lasciato da Segen e Abi; dall’altra, deve per forza andare avanti. Il suo desiderio di dare più opportunità a sua figlia e di trovare finalmente un posto dove vivere da uomo libero lo aiutano a guardare al futuro. Ma quello che alla fine sarà in grado di fare è limitato dal fatto di essere un profugo senza documenti in Sudan, che nel cercare una vita d’uscita si rivolge a una comunità internazionale in gran parte indifferente.

Alla fine, l’inchiesta di Ghost Boat non ha ottenuto quello che Yafet sperava – o quello che ognuno di noi sperava. Ma Yafet trova un po’ di conforto nel fatto che almeno ci abbiamo provato.

“Mi sento tranquillo perché ho fatto tutto quello che potevo fare. Io ho fatto del mio meglio, tu hai fatto del tuo meglio. La maggior parte di noi, i parenti, anche noi stiamo tutti facendo del nostro meglio”, mi dice Yafet quando ci troviamo a casa sua, il mio ultimo giorno in Sudan.

“Quello che si è ottenuto è che, in realtà, ora so che le voci non sono vere... e sappiamo cosa si può fare, l’abbiamo fatto”.

L’esperienza lo ha fatto sentire meno solo. Quando il caso era stato inizialmente ignorato dai media internazionali, si sentiva abbandonato, come se al mondo non importasse. Ora, molti sono entrati in contatto con lui – perfetti sconosciuti – per esprimere il loro sostegno per quello che stava passando.

“Quando qualcuno condivide il tuo dolore o i tuoi momenti brutti, ti fa stare un po’ meglio. Almeno senti che altre persone sono con te, stanno pensando a quello che è ti successo”.

Eppure, la storia di Yafet, come la crisi dei profughi in sé, sfugge a ogni tentativo di trovare un finale. Il flusso di persone attraverso tutto il Mediterraneo continua e non dà segno di potersi fermare molto presto. Dove sono stati chiusi i confini, le persone sono semplicemente rimaste bloccate – in un limbo e una sofferenza prolungati all’infinito.

Finché continuano i conflitti e le condizioni di oppressione che spingono la gente verso un folle viaggio di fuga, ci saranno sempre abbastanza persone disperate pronte a rischiare tutto e sfidare il mare aperto. Il problema potrà alla fine venire eclissato da altri che passano al centro dell’attenzione dei media, ma l’orizzonte lontano del Mediterraneo continuerà a promettere sicurezza e opportunità. E anche se la realtà all’interno dei suoi confini è molto più complicata, raggiungere l’Europa vuol dire ottenere qualcosa che è impensabile nei vari purgatori da cui provengono i profughi – vuol dire ottenere la possibilità di un futuro. E in fin dei conti, è quello il sogno di ogni genitore per i propri figli.

È lo stesso sogno che ha attirato la moglie di Yafet con la figlia più piccola lontano da lui. E anche la loro storia è rimasta senza una conclusione. Potrebbe non averla mai.

Senza prove definitive su quanto accaduto, le famiglie dei 243 dispersi della “barca fantasma” continueranno a vivere tra speranza e disperazione, sospesi in un capitolo della loro vita che potrebbe non chiudersi mai.

Come mi ha detto mesi fa una dei parenti dei dispersi: “Ora so che esiste una fine peggiore della morte: quando qualcuno scompare nel nulla e tu continui a pensarci ogni giorno, a chiederti se è vivo o morto”.

La mia ultima sera in Sudan, tutto il peso di quella frase si fa sentire.

Sono sdraiato a letto nel mio hotel. Non ho ancora fatto i bagagli. Ci penserò domattina. Passo dal sonno al dormiveglia, pensando al viaggio.

La conversazione che ho avuto con Yafet è stata una delle più difficili della mia vita, ma mi sento relativamente in pace, più di quanto avrei potuto sperare. Abbiamo raggiunto una reciproca comprensione realistica di come stanno le cose, e vedere la sua capacità di recupero e il suo affetto per la figlia mi ha dato speranza. Anche in quelli che sembrano i periodi più bui, la vita va avanti, con i suoi piccoli momenti di gioia e di redenzione.

Poi squilla il telefono, facendomi svegliare di colpo.

Yafet ha appena letto su Facebook di una nuova teoria che sta circolando con il passaparola tra parenti dei dispersi: forse alcuni dei passeggeri della barca scomparsa sono stati trovati vivi. E se stavolta questa voce fosse vera?

Mi prendono emozioni contrastanti.

La folle speranza e le frustrazioni dell’inchiesta tornano a farsi sentire di colpo, riportandomi indietro proprio mentre sto cercando di tirarmi fuori. Per Yafet, tutto questo deve essere infinitamente più straziante. In definitiva, questa è la storia. E potrebbe andare avanti per sempre.

Questo articolo è stato scritto da Eric Reidy e curato da Bobbie Johnson, con la direzione artistica di Noah Rabinowitz. Fotografia di Gianni Cipriano per Medium.

Vorremmo offrire i nostri più sinceri ringraziamenti a tutte le persone che hanno partecipato alla nostra inchiesta, dalle migliaia di lettori e volontari che hanno contribuito aiutandoci a esaminare i dati, tradurre gli articoli e fornire supporto, alle persone che hanno lavorato sia direttamente che indirettamente alla serie di episodi pubblicati, tra cui Rebecca Cohen, Rachel Glickhouse, Meron Estefanos, Martino Galliolo, Sam Cannon, i team di Medium e Matter, gli studenti e la facoltà della Columbia University e della CUNY, i membri di First Draft, e molti altri.

Se volete dare un contributo alle organizzazioni umanitarie che assistono i profughi in difficoltà, vi invitiamo a sostenere l’UNHCR, l’International Rescue Committee, MOAS, o il Comitato internazionale della Croce Rossa.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia