Ghost Boat

“Ciao papà, ti chiamo dalla barca, sta affondando e io sto per morire”

Episodio 2: Salvagenti che uccidono, imbarcazioni destinate a non farcela. La barca “fantasma” avrà mai raggiunto le coste dell’Europa?

Monica Cainarca
14 min readOct 19, 2015

Di Eric Reidy
Fotografia di
Gianni Cipriano

Parte 2 dell’inchiesta del team di Ghost Boat (parte 1 e successive: 3456 • 7 • 8)

Un migrante sul treno da Ventimiglia a Nizza.

L’uomo che avrebbe dovuto sapere qualcosa era un sudanese di nome Ibrahim: era lui a capo del giro di trafficanti che ha portato la moglie di Yafet, Segen, e la figlia Abigail, attraverso la Libia e il Sahara nel loro viaggio verso l’Europa. Quando Segen non si è fatta più sentire, Yafet parlò in un primo momento con uno dei complici di Ibrahim, un eritreo di nome Measho. Ma Measho aveva solo scuse, non informazioni.

Una foto presa dal profilo di Measho Tesfamariam su Facebook.

Forse aveva solo un ruolo marginale nel giro, pensò Yafet. Forse non se ne stava nemmeno interessando e chiedendo in giro. Così Yafet provò a parlare direttamente con Ibrahim.

“Non ti preoccupare”, diceva Ibrahim. “Non ti preoccupare”.

Dopo due settimane, però, quella generica rassicurazione non bastava più a Yafet, come non bastava ai parenti degli altri dispersi: volevano sapere qualcosa di concreto. A questo punto, dubitando di potersi aspettare qualcosa da Ibrahim, si misero in contatto con altri in Italia, in Libia, nella speranza che qualcuno avesse informazioni.

Come Measho, Ibrahim aveva raccontato un sacco di storie sempre diverse, che facevano solo crescere la confusione e l’incertezza. In una di queste versioni, tutti i dispersi sarebbero finiti in carcere in Italia: a bordo sarebbe stata trovata della droga e la polizia avrebbe liberato i detenuti solo dopo accertamenti per individuare i responsabili del contrabbando. Ma era andata davvero così? Le famiglie dei dispersi non sapevano più cosa credere, cosa pensare.

Forse Ibrahim stava dicendo la verità, forse la barca ce l’aveva fatta ad arrivare in Italia. Ma i parenti come potevano saperlo con certezza?

Un giorno, Yafet chiese quante persone di preciso fossero salite su quella barca. Saperlo gli sarebbe stato utile, pensò, un punto di partenza per indirizzare meglio le sue ricerche. Erano 243, gli rispose Ibrahim.

“Vuol dire che c’erano 243 persone che hanno pagato”, mi spiega poi Yafet. “Ce n’erano altre che hanno viaggiato gratis: i bambini come Abigail che hanno meno di dieci anni non pagano mai, i trafficanti non chiedono soldi per loro. Contano solo chi ha pagato”.

Giubbotti salvagente usati dai migranti vicino a un’imbarcazione che ha attraversato il Mediterraneo carica di migranti e richiedenti asilo.

C’è solo una regola per i trafficanti: imbarcare il maggior numero di passeggeri con la minima spesa. Sulle coste della Libia, questi sciacalli possono stipare da cento a seicento persone – a volte anche di più – su barche che in genere sono inadatte alla navigazione in alto mare.

A volte sono vecchi pescherecci in legno, magari con due ponti, oppure semplici gommoni, esposti alle intemperie e carichi di corpi umani pigiati l’uno contro l’altro. Far ammassare su queste piccole imbarcazioni centinaia di persone spesso riluttanti richiede l’uso della forza, a volte anche violenza estrema. Chi ce l’ha fatta racconta di casi di profughi uccisi a caso dai trafficanti, solo per dare un avvertimento agli altri.

I passeggeri che pagano una tariffa più bassa sono stipati nella buia e umida stiva sottocoperta, se ce n’è una. Quelli più vicini al motore spesso muoiono soffocati dai gas di scarico, ma nemmeno stare sopra coperta, sul ponte della barca, è privo di rischi: c’è gente che cade in mare per il sovraffollamento, o finisce spinta in acqua quando scoppiano tafferugli a bordo.

A volte, i trafficanti distribuiscono giubbotti salvagente o la barca ne ha alcuni a bordo. Chi è ben preparato si porta addirittura il suo giubbotto personale. Ma anche questa può rivelarsi una maledizione.

“Dai racconti che abbiamo sentito, quando solo alcuni dei migranti hanno giubbotti salvagente, se la barca affonda tutti cercano di aggrapparsi a chi ha il giubbotto”, spiega Othman Belbeisi, il capo della divisione libica dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Così, con più persone aggrappate a quella con il salvagente, annegano tutte. “A volte avere un giubbotto salvavita è più rischioso che non averlo”.

Di solito i trafficanti, una volta che hanno stipato tutti sulla barca, non si imbarcano insieme ai profughi – anzi, non impiegano nemmeno un pilota. Le barche sono capitanate invece dai profughi che si offrono volontari per stare ai comandi, in cambio di un passaggio gratuito o a tariffa ridotta. È gente che non ha alcuna esperienza al timone.

A volte c’è una bussola o il GPS – anche se sono apparecchiature che i profughi raramente sanno usare – e di solito ai passeggeri viene dato un telefono satellitare, da usare per chiamare le navi di soccorso se e quando sarà il momento.

Quel momento arriva quasi sempre, perché le barche non sono dotate di carburante sufficiente per raggiungere l’Italia. La strategia dei trafficanti è semplicemente far arrivare la barca fino alle acque internazionali, dove è possibile inviare il segnale di richiesta di soccorso e aspettare il salvataggio.

“Il piano è di far arrivare i profughi ad almeno venti miglia dalle coste libiche e da lì chiedere aiuto”, dice Belbeisi.

In realtà la distanza dalla Libia alla punta estrema della Sicilia è di 300 miglia, meno se si riesce a raggiungere Malta o l’isola di Lampedusa. Se tutto va secondo i piani, i profughi riescono a raggiungere l’Europa in pochi giorni. Ma può capitare, anche nei viaggi andati a buon fine, che le barche vadano alla deriva per giorni prima che arrivino i soccorsi. La gente si ammala per mancanza di cibo e acqua e per l’esposizione al sole. Nel 2011, prima che la crisi dei profughi venisse prepotentemente alla ribalta, una barca che aveva avuto un guasto nel viaggio verso l’Europa andò alla deriva per due settimane all’interno di una zona di sorveglianza marittima della NATO. Fu notata da varie navi lungo il percorso, ma nessuna intervenne. Quando finì di nuovo sulla costa libica, 63 dei 72 occupanti erano morti.

“I trafficanti ci hanno fatto imbarcare su un grande e vecchio peschereccio di legno. La barca era sovraffollata, eravamo in 550 a bordo”, dice Fanus, una giovane eritrea che ha fatto la traversata dalla Libia all’Italia nel 2013. “A noi donne e ai bambini piccoli hanno ordinato di stare nel ponte inferiore. Io che sono un po’ un maschiaccio volevo stare di sopra con gli uomini. Il capitano ha detto che eravamo in troppi sulla barca, così il trafficante ha deciso di prendere trenta persone e buttarle fuori”.

Hosein è fuggito dall’Afghanistan nel 2014, tentando la traversata del Mediterraneo orientale – dalla Turchia verso le isole greche, a centinaia di miglia dalla rotta che la barca fantasma avrebbe dovuto percorrere. Ma la sua esperienza è simile a quella di chi parte dalla Libia. Quando la barca ha avuto un’avaria al motore, i due “capitani” hanno cercato di fuggire su imbarcazioni più piccole. “Sono stati avvistati e fermati dai siriani... Quando sono sbarcato sull’isola, una donna che lavorava nella guardia costiera mi ha detto che avevano trovato uno dei capitani. Ma era già morto”.

Anche Firas, un profugo siriano di vent’anni, è sopravvissuto a un naufragio sulla rotta verso la Grecia. La barca su cui viaggiava non ha retto ed è affondata. Firas ha dovuto nuotare al buio per sette ore prima che arrivassero i soccorsi.

“Quando abbiamo saputo che la barca stava per affondare, io e i miei tre amici dalla Siria ci siamo buttati in acqua. Non avevamo neanche un giubbotto salvavita, solo due braccioli di gomma per bambini, ed eravamo in quattro. Li abbiamo dati ai due più giovani, che avevano solo 15 e 17 anni, perché non sapevano nemmeno nuotare”, ha detto all’International Rescue Committee dopo lo sbarco. “Tre iracheni sono rimasti sulla barca, non hanno voluto venire con noi, ripetevano: ‘non sappiamo nuotare’. Uno di loro ha usato Viber per telefonare a suo padre. Gli ha detto: ‘Ciao papà, la barca sta affondando e sto per morire’. È stato il suo ultimo messaggio”.

Tutto questo significa che le barche sulle quali i profughi arrivano a Malta o in Italia non sono quasi mai le stesse che erano partite dalla Libia. Nel 2014, quando la “barca fantasma” è scomparsa, a prestare soccorso erano le navi della Marina Militare italiana, nell’ambito della missione Mare Nostrum. Oggi, i migranti sono raccolti da una delle sei grandi navi dell’operazione Triton di Frontex o da imbarcazioni di organizzazioni non governative.

Quando le operazioni di ricerca e soccorso sono state ridotte alla fine del 2014 per mancanza di fondi dell’Unione europea, il numero di morti nel Mediterraneo è salito alle stelle. Quasi duemila persone sono morte tentando la traversata nei primi sei mesi di quest’anno – più di tre volte tanto rispetto allo stesso periodo nel 2014.

Milletrecento persone sono annegate in naufragi al largo delle coste libiche nel corso di una sola settimana a metà aprile. In risposta a queste tragedie, l’Unione Europea ha aumentato i fondi per la nuova missione di ricerca e soccorso, l’operazione Triton, spostando la zona di intervento più vicino alla costa libica. Da allora, anche se sono morte più di mille persone sulla rotta centrale del Mediterraneo, la percentuale di vittime si è ridotta nettamente.

Oggi, alcune navi da soccorso sono grandi abbastanza da imbarcare centinaia di passeggeri, il che significa che spesso possono trasportare in una sola volta i sopravvissuti di più interventi di soccorso. Così, anche dopo un salvataggio, i profughi possono restare in mare per altri due o tre giorni, mentre la nave di soccorso compie altre operazioni. Possono esserci settecento, ottocento, anche novecento persone a bordo in una sola volta.

Quando finalmente arrivano in porto, i superstiti sbarcano per primi dalle navi. Poi i soccorsi trasportano a riva i corpi delle vittime.

“È piuttosto impressionante [ma] non c’è caos... Tutto si svolge in modo molto sommesso, perché sono tutti esausti e preoccupati”, dice Fausto Melluso, un attivista ed esperto di migrazione che lavora con l’Arci. “Non c’è tensione, almeno fino al momento di prendere le impronte digitali”.

Le impronte digitali sono forse la parte più critica dopo lo sbarco, perché il momento in cui si prendono le impronte a un profugo è di fatto il momento in cui entra a far parte del sistema ufficiale di immigrazione.

Secondo il regolamento di Dublino, la normativa comune dell’Unione Europea in materia di asilo, si ha diritto di chiedere asilo solo nel primo Paese di arrivo. Per molti profughi, l’arrivo coincide quindi con le procedure di identificazione e registrazione – e tutto passa per le impronte digitali.

I Paesi più accessibili a chi è fuga dalla guerra, dalla repressione o dalla povertà in Africa, Medio Oriente o Asia del Sud sono quelli del sud e dell’est dell’Europa: Italia, Spagna, Grecia, Bulgaria. Sono anche i Paesi con le economie più deboli, le procedure di asilo più lente e meno servizi sociali per i rifugiati. La maggior parte dei profughi che arrivano in questi Paesi non ha intenzione di restarci: preferisce dirigersi verso il nord Europa, che offre migliori prospettive di lavoro e reti di sostegno più forti.

“Il problema è che tanti immigrati conoscono le nostre leggi e non vogliono farsi prendere le impronte. Quindi è difficile, perché non puoi usare la forza per costringerli”, mi spiega Erasmo Palazzotto, un parlamentare siciliano.

Di conseguenza, le autorità italiane hanno adottato una politica non ufficiale: non prendono le impronte digitali a tutti. Nel 2014, su più di 170.000 persone arrivate in Italia dalla Libia, sono state presentate solo 64.000 nuove richieste d’asilo.

Alcuni migranti vengono perquisiti dalla polizia francese dopo essere stati fermati mentre tentavano di attraversare il confine tra Italia e Francia.

All’arrivo, il processo di smistamento inizia subito.

“Quando una barca arriva, la polizia sale per prima a bordo, per arrestare i trafficanti. Nella maggior parte dei casi sono i piloti a finire arrestati, in base alle indicazioni dei migranti stessi”, spiega Flavio Di Giacomo, uno dei collaboratori di Bielbesi per l’OIM in Italia. “In genere sono due o tre, al massimo quattro persone. Poi si fanno sbarcare i migranti, si contano e si procede alla visita medica”.

A questo punto, si passa alla procedura di “prima identificazione”.

“In pratica, li si raduna tutti in una zona del porto, li si conta uno per uno, si prendono i nomi, si fanno fotografie e si rilevano le impronte digitali. A volte il rilevamento delle impronte può richiedere più tempo e si rimanda tutto al giorno successivo, perché ci sono troppe persone”.

I profughi vengono portati in centri di prima accoglienza, dove dovrebbero restare solo alcuni giorni. Quelli identificati con le impronte digitali vengono poi trasferiti in altri centri, in attesa dell’esito della richiesta di asilo. In teoria, la procedura per ottenere l’asilo in Italia dovrebbe essere una questione di pochi mesi, ma in realtà può durare fino a due anni e mezzo.

Hosein, l’uomo che ha lasciato Afghanistan per l’Europa l’anno scorso, è sbarcato in Grecia, ma ora vive in Francia. Ha perso la madre e la sorella nel naufragio della barca su cui viaggiavano tutti insieme, ma si sta ricostruendo una vita. “Ho trovato un sacco di amici qui. Sono molto contento. Dobbiamo continuare. Non c’è altra scelta. Il prossimo mese prendo finalmente la patente. Ho fatto un corso di francese e ho superato l’esame”.

Gli eritrei, però, spesso rifiutano di dare le proprie impronte digitali al momento dell’arrivo. La diaspora è ampia e ben informata: sanno bene quali sono le conseguenze se si lasciano identificare in Italia e spesso hanno parenti che vogliono raggiungere nel nord Europa.

I rifugiati che non sono ancora stati identificati con le impronte digitali lasciano i centri di prima accoglienza e si avviano verso nord, inizialmente verso città come Roma e Milano, poi ancora oltre, verso l’Austria, la Germania, la Francia. Dato che in quasi tutta l’Europa vige una politica delle frontiere aperte (anche se alcuni Paesi ora stanno introducendo restrizioni e controlli), possono arrivare fino in Norvegia o in Svezia prima di presentare richiesta d’asilo.

Spesso, si uniscono a loro anche i profughi già registrati con le impronte digitali: se sono intercettati dalle autorità di altri Paesi, vengono rispediti in Italia. Nonostante il rischio, l’Italia, con la sua economia stagnante e le sue lente procedure di asilo, non è una meta prescelta.

Prendere l’autobus notturno dal porto siciliano di Catania per arrivare a Roma è spesso il primo passo per i rifugiati diretti verso nord.

Prendere l’autobus notturno dal porto siciliano di Catania per arrivare a Roma è spesso il primo passo per i rifugiati diretti verso nord.

Alla stazione, gli italiani che aspettano l’autobus hanno borse da viaggio e valigie, mentre i profughi se ne stanno in disparte con i loro pochi averi raccolti in sacchetti di plastica. Quando il sole comincia a calare, arrivano sempre più profughi in piccoli gruppi dai parchi vicini. Parlano a toni bassi e nervosi tra di loro, cercando di capire quale autobus è quello giusto.

È qui che incontro Msgna una sera a metà settembre. Ha solo quattordici anni, è arrivato fin qui dall’Eritrea, da solo. Sono sempre più i minori eritrei come lui che tentano la traversata non accompagnati da un adulto. Msgna, capelli neri e ricci rasati sui lati, se ne sta seduto in silenzio sul muretto di cemento che circonda la stazione. Accanto a lui, un ragazzo egiziano, anche lui quattordicenne. Si sono conosciuti solo un paio di giorni prima. È l’unica persona che lo accompagna nel viaggio.

Msgna era arrivato in Italia cinque giorni prima, dopo il viaggio su una barca che portava quasi 300 migranti, sei di loro morti durante la traversata.

All’inizio, era stato qualche giorno in un centro d’accoglienza.

“I profughi nel centro sono maltrattati”, mi dice. “Il mangiare non era buono, il posto non era buono... nemmeno l’acqua da bere era buona”.

Mentre parliamo, di tanto in tanto mi guarda con aria stanca e timida.

Le autorità non gli hanno rilevato le impronte digitali. Così ora si sta dirigendo a nord, in Svezia, dove vive suo fratello. La madre e altri fratelli si erano fermati a Khartoum, come Yafet, dopo essere fuggiti dall'Eritrea.

Quando l’autobus per Roma arriva in stazione, salta in piedi afferrando la borsa di plastica che contiene tutti i suoi averi. Il nostro fotografo lo segue e gli chiede il permesso di fargli qualche foto. Penso ai passeggeri della “barca fantasma” e mi chiedo se siano mai arrivati ​​fin qui. Forse sono riusciti a sbarcare in Sicilia, per scomparire poi, in qualche modo, durante il viaggio verso nord. Sembra una possibilità remota, ma forse anche loro sono passati per questa stessa stazione degli autobus, proprio come me, come Msgna.

Nel trambusto, Msgna non è sicuro se vuole lasciarsi fotografare o no. Tira fuori il suo cellulare e fa una chiamata al fratello in Svezia.

Una semplice telefonata, un banale gesto quotidiano che osservo un’infinità di volte ogni giorno intorno a me. Ma guardare Msgna che telefona al fratello da qui fa svanire di colpo nella mia mente anche la più debole speranza che i passeggeri della “barca fantasma” siano mai arrivati in Italia. Se Msgna, un ragazzino solo e con poche risorse, è riuscito a trovare il modo di mettersi in contatto con un parente da qui, che probabilità ci sono che i 243 dispersi e il loro figli siano mai sbarcati in Italia, se nemmeno uno di loro è riuscito a fare una telefonata ai familiari?

Viviamo in un mondo iperconnesso e i profughi della diaspora eritrea diretti in Europa non sono un’eccezione. È impossibile pensare che i passeggeri della barca fantasma, anche nell’ipotesi che non tutti siano sopravvissuti alla traversata, abbiano avuto difficoltà a contattare le loro famiglie dopo un regolare sbarco in condizioni di libertà.

È altrettanto improbabile che l’Italia, come sostiene Ibrahim, li abbia arrestati per traffico di droga tenendoli in carcere per più di un anno senza accuse formali. Il sistema giudiziario italiano ha le sue disfunzioni, ma non avrebbe alcun senso, anche solo per una questione di costi e di rischi, incarcerare così tante persone – soprattutto gli eritrei, che sono considerati dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, “people of concern”, persone a rischio di persecuzione, con diritto alla protezione umanitaria. E oltretutto, non vogliono nemmeno restare in Italia. Le autorità italiane sanno che possono semplicemente lasciare liberi i richiedenti asilo eritrei, farli diventare il problema di qualcun altro.

Un richiedente asilo dal Pakistan legge il Corano seduto sul suo letto nel CAS.

Quel momento cristallizza in me la certezza che la ricerca della barca fantasma debba concentrarsi altrove, su ipotesi più cupe e più difficili. I casi sono due: o la barca è affondata ma, per qualche strana lacuna del sistema, non c’è alcuna traccia della tragedia; oppure la telefonata misteriosa da un carcere tunisino è una valida pista di indagine: i passeggeri della barca fantasma potrebbero essere davvero da qualche altra parte, forse in Tunisia, o in Libia, detenuti in condizioni che non conosciamo.

Per le famiglie ancora sospese nel limbo dell’incertezza, la prima ipotesi, per quanto cupa, potrebbe almeno offrire un senso di conclusione; la seconda, per quanto siano stati difficili gli ultimi sedici mesi, offrirebbe un barlume di speranza che le persone scomparse siano ancora vive e possano un giorno ricongiungersi ai loro cari.

In entrambi i casi, per ora, l’inchiesta dovrà esplorare scenari più tetri.

Tutti potete aiutarci a scoprire cosa è successo.

Vogliamo scoprire cosa è successo a tutte le persone che viaggiavano sulla barca fantasma. E chiediamo a tutti voi di darci una mano, esaminando le teorie, spulciando tra i dati e proponendo ipotesi e piste di indagine.

Al momento abbiamo bisogno di saperne di più sui trafficanti e individuare i punti in cui l’imbarcazione potrebbe essere andata alla deriva.

Ecco come potete collaborare e fare la differenza.

La versione originale inglese di questo articolo è stata scritta da Eric Reidy con Meron Estefanos. La revisione è stata curata da Bobbie Johnson, la verifica dei fatti da Rebecca Cohen e la verifica finale da Rachel Glickhouse. Direzione artistica di Noah Rabinowitz. Fotografie di Gianni Cipriano.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia