Ghost Boat

“Ora so che c’è una fine peggiore della morte”

Episodio 4: La chiave del mistero della barca scomparsa tra la Libia e l’Italia con 243 profughi a bordo è una strana telefonata da un uomo che nessuno aveva rintracciato finora. Siamo andati in Tunisia a scoprire chi era stato a chiamare e se ha detto la verità.

Monica Cainarca
19 min readNov 4, 2015

Di Eric Reidy
Fotografia di Gianni Cipriano

Parte 4 dell’inchiesta del team di Ghost Boat (parti 123 – successive: 56 • 7 • 8)

Le foto delle persone scomparse sono prese da Facebook o fornite dai parenti (i volti sono stati oscurati a tutela della privacy e della sicurezza).

Sono passati esattamente sedici mesi da quando la “barca fantasma” con 243 profughi a bordo è scomparsa. Sedici mesi da quando Segen, Abigail e gli altri passeggeri sono svaniti nel nulla durante la traversata dalla Libia all’Italia. Sedici mesi di vite sospese.

“Tutti i parenti continuano a sperare che i loro cari siano vivi da qualche parte”, mi dice Yafet, il marito di Segen. “Io non so più cosa pensare adesso... È dura, molto dura.”

243 dispersi e i loro familiari, ognuno con la sua storia, ognuno ancora fermo in un limbo di domande senza risposta. C’è chi mi racconta della costante frustrazione che prova, di come l’abbia portato alla depressione; chi doveva sposarsi ma ha rimandato il matrimonio finché non scoprirà cosa è successo al fratello scomparso; e chi mi confessa di non riuscire più a concentrarsi su nulla, a pensare ad altro.

Hellen, il cui fratello Aklilu era sulla barca, mi racconta di avere annullato il suo solito viaggio annuale in Eritrea per andare a trovare i genitori, che ancora non sanno che il figlio è disperso. Finora Hellen gli ha raccontato una bugia – che Aklilu è in Libia ma non ha accesso a un telefono e non può chiamare casa – ma sa che vedendoli di persona non riuscirebbe più a mentire. Sarebbe costretta a dire la verità: che non ha idea di dove sia suo fratello, non sa se è vivo o morto.

“Ho un legame molto forte soprattutto con mio padre, stravede per me”, mi dice. “Ma ho dovuto interrompere più volte le telefonate con lui, perché non so più cosa rispondere a tutte le sue domande. Ho esaurito le scuse”.

Il padre è malato e Hellen teme che la verità possa essergli fatale.

Eric Reidy mentre raccoglie informazioni nelle Isole Kerkenna, in Tunisia. Fotografia di Gianni Cipriano.

Sono ormai due mesi che sono impegnato a tempo pieno nella ricerca dei dispersi. Abbiamo fatto molti progressi su diversi fronti, ma quello che sappiamo per certo è ancora troppo poco.

Sappiamo che i passeggeri della barca scomparsa non sono mai arrivati in Italia. Sappiamo – grazie alla procura che indaga in Italia – che i passeggeri sono stati in una fattoria nei pressi di Tripoli, dove lo scafista Ibrahim alloggiava i profughi prima della traversata in mare. Sappiamo che poi sono stati portati o a Tripoli o a Zuwarah, 120 chilometri più in là lungo la costa. Sappiamo che se la barca è affondata e i corpi sono finiti a riva, c’è la possibilità che siano stati sepolti in fosse comuni senza essere nemmeno identificati. E la comunità che collabora all’inchiesta sta compiendo notevoli progressi nell’indagare su quello che può essere successo alla barca in mare.

Ma per la maggior parte, la nostra inchiesta ha rivelato solo vuoti e mancanze: di prove, di documentazione, di contatti. Sono lacune che lasciano aperte tutte le domande, tutte le possibilità – e lasciano una speranza ai familiari, anche quando le prospettive sembrano cupe.

In tutte le domande ancora senza risposta, però, c’era ancora un dettaglio che non riuscivo a levarmi dalla testa – una cosa che sembrava così strana da non poter essere ignorata.

La telefonata.

In Eritrea, i parenti di uno dei dispersi avevano ricevuto una chiamata da un numero di telefono tunisino: era un uomo che affermava di essere una guardia carceraria e che i dispersi della barca erano detenuti proprio nella prigione dove lavorava, nel sud della Tunisia.

Tra tutti i possibili indizi di cui siamo venuti a conoscenza, era l’unico a sostegno dell’ipotesi che i passeggeri della “barca fantasma” siano ancora vivi. È stato il motivo che ha spinto Meron Estefanos, la giornalista eritrea che si occupa della questione dei profughi e sta collaborando a questo progetto, a recarsi in Tunisia all’inizio di quest’anno. L’ho incontrata mentre stava indagando sulla possibilità che i dispersi fossero stati detenuti in un carcere tunisino – ed è così che io stesso sono venuto a sapere del caso.

Chi era l’uomo che ha fatto quella telefonata?

Uno dei possibili nomi è quello di un certo Asaad, che aveva lavorato in Arabia Saudita con una parente di uno dei dispersi e poi era tornato a vivere in Tunisia. Dopo la scomparsa della barca, la donna si era rivolta a lui per chiedergli aiuto. Asaad l’aveva richiamata per dirle quanto gli era stato riferito da un suo amico, un ufficiale di polizia, che sosteneva che i passeggeri della barca erano finiti in carcere nel sud della Tunisia.

Quando Meron si era recata in Tunisia per cercare quelle persone in carcere, aveva contattato Asaad con l’aiuto di un traduttore tunisino. Asaad si era arrabbiato e le aveva risposto gridando: si era offeso perché parlava benissimo inglese e gli dava fastidio che Meron avesse coinvolto un altro tunisino. Poi le disse che aveva altre informazioni, che sapeva dov’erano i passeggeri della barca, ma avrebbe parlato solo se Meron l’avesse pagato. Man mano che la discussione proseguiva, i particolari cambiavano: il nome della città dove i profughi sarebbero stati in prigione ora era un altro, poi un altro ancora. Asaad continuava a chiedere soldi.

Meron non si era più fidata e aveva interrotto ogni contatto con Asaad, ma ha continuato a seguire quella pista, recandosi di persona a Sfax per verificare se i dispersi fossero nel carcere di quella città. Alla prigione le è stato detto che c’erano molti detenuti africani sub-sahariani, ma non c’era traccia dei nomi che stava cercando. Una persona che lavora al tribunale locale le ha riferito di aver sentito parlare di un grande gruppo di africani sub-sahariani, ma nulla è stato documentato. E tutti le hanno detto che in ogni caso, anche se i dispersi della barca scomparsa fossero stati in Tunisia, sarebbero già stati deportati da tempo. Ogni fonte ben informata mi ha confermato che le deportazioni nel deserto sono comuni.

In questa storia c’erano particolari difficili da ignorare. Perché mai più di una persona a Sfax avrebbe raccontato a Meron di quei detenuti africani, se non ci fosse dietro niente di vero? È davvero possibile che la Tunisia abbia deportato 243 profughi, abbandonandoli in una terra di nessuno lungo il confine nel deserto?

È una possibilità che non si può escludere.

Mi sono state riferite varie storie con elementi strani che potrebbero andare a sostegno di questa ipotesi. Una donna camerunese mi ha raccontato di essere stata tenuta prigioniera a Sfax nel 2012 – aveva tentato di partire dalla Tunisia su una barca diretta a Lampedusa, ma era stata rapita dai trafficanti e tenuta in ostaggio con più di 150 altre persone. C’erano state torture, scosse elettriche – un trattamento brutale. “Siamo stati trattati come animali”, mi ha detto.

Alla fine l’avevano lasciata andare – ma gli altri prigionieri sono stati messi su una barca e abbandonati in mare.

Un’altra storia del genere mi è stata raccontata da un uomo che lavora per un’organizzazione locale. Durante l’intervista nel suo ufficio, parlando in veste ufficiale, non mi aveva dato nessuna informazione. Mi sentivo preso in giro. Ero frustrato e stavo per andarmene. Poi aveva insistito per bere un caffè insieme, anche dopo che avevo già declinato l’invito due volte dicendo che avevo troppo da fare.

Così eravamo andati a prendere un caffè al bar e lì, a registratore spento, l’uomo aveva iniziato a parlare, visibilmente nervoso, con il volto che si faceva sempre più rosso e il sudore che gli colava dalla fronte mentre mi raccontava la storia di un amico del suo quartiere che aveva lasciato la Tunisia illegalmente su un’imbarcazione diretta a Lampedusa, a fine giugno o inizio luglio del 2014. Dopo l’arrivo in Europa, l’amico gli aveva riferito che sulla barca con lui c’erano africani sub-sahariani sequestrati e fatti prigionieri a Sfax prima di partire. Alcuni erano morti durante il viaggio.

La storia non corrispondeva alle informazioni che abbiamo sulla barca scomparsa, ma, insieme al racconto della donna camerunese, lasciava intendere che a Sfax accadevano cose di cui non si parlava apertamente.

Questi racconti hanno rafforzato la mia impressione dell’esistenza di due mondi paralleli: quello davanti ai miei occhi, che posso vedere e sentire e toccare, e l’altro, il mondo sommerso di cui si parlava solo a bassa voce. Che cosa stava succedendo in quel mondo parallelo?

Non esiste una legge in materia di asilo in Tunisia. Non c’è nessuna protezione per chi è senza documenti.

Man mano che iniziavo a scavare più a fondo, mi dicevano di stare attento, avvertendomi sulle possibili ripercussioni.

“Se provi a ficcare il naso in questa storia, sarai espulso nel giro di 24 ore”, mi ha detto uno dei miei contatti, che aveva cercato di aiutare i migranti senza documenti a Sfax, ma aveva dovuto lasciar perdere dopo essere stato avvicinato in un bar da due poliziotti in borghese – uno con una pistola alla cinta e un altro con un grosso coltello – che si erano rivolti a lui per nome e l’avevano avvertito di smettere.

L’idea che anche Segen, Abigail e gli altri passeggeri della “barca fantasma” fossero in qualche modo finiti in Tunisia e scomparsi in questo mondo sommerso di detenzioni, deportazioni e barche misteriose iniziava ad apparirmi sempre più plausibile. Ma avevo bisogno di trovare un modo per dimostrarne l’esistenza. Avevo bisogno di sapere di più della telefonata.

David è un altro dei parenti con cui avevo parlato. Sua nipote è tra i dispersi e David mi aveva aiutato a raccogliere informazioni dagli altri. Gli ho detto dove mi trovavo e che avevo bisogno di sapere di più su quella telefonata. Era stato Asaad a chiamare? O c’erano altre persone in Tunisia con cui i parenti dei dispersi avevano parlato? C’erano altre informazioni più concrete? Numeri di telefono? Un nome?

Pochi minuti dopo, il mio telefono ha iniziato a vibrare. Era David che richiamava: aveva fatto qualche domanda e recuperato altre informazioni. A quanto pare, c’erano due uomini coinvolti in Tunisia: uno era lo stesso che aveva chiesto soldi a Meron per parlare, ma ce n’era anche un altro – e la sua storia corrispondeva a quello che stavo cercando di scoprire.

Questa è la storia della telefonata come me l’ha spiegata David: una famiglia nell’Eritrea rurale aveva ricevuto una chiamata persa da un numero tunisino e l’aveva passato a una donna di lingua araba il cui fratello era tra i dispersi della barca. La donna aveva chiamato subito il numero. Le aveva risposto un uomo, che in un primo momento le aveva detto di non aver mai telefonato a numeri in Eritrea. Più tardi, però, l’uomo l’aveva richiamata per aggiungere altri dettagli: quel giorno stesso era stato in visita a suo figlio Riadh, che si trovava in carcere a Sfax e che gli aveva detto che nella stessa prigione c’erano più di 150 africani sub-sahariani. Il padre quindi aveva chiesto alla famiglia eritrea delle foto da dare a Riadh, per verificare se fossero le stesse persone detenute nel suo carcere. Poi, improvvisamente, non aveva voluto più parlare: aveva paura, era stato avvertito di evitare i contatti con gli eritrei, perché quello che stava facendo era illegale. Poteva finire in prigione.

David poi è riuscito a rintracciare e passarmi altri due numeri: quelli di Riadh e di suo padre.

Finalmente avevo qualcosa di concreto: un nome e numeri di telefono, elementi reali su cui indagare per cercare di far luce su questa storia. Iniziava a sembrare plausibile.

Prima di mettermi in contatto, però, avevo bisogno di verificare i dettagli. Dopo varie ricerche online e grazie all’aiuto di un amico esperto di cose più tecniche, avevamo fatto un passo avanti: un annuncio di lavoro pubblicato online per un panificio, con dati che confermavano il nome di Riadh, il suo numero di telefono e il suo indirizzo. Il panificio era appena fuori Mahdia, nello stesso luogo in cui era registrato il numero del padre. Avevamo rintracciato la fonte dell’ipotesi che i dispersi fossero finiti in Tunisia – l’unica persona che sarebbe stata in grado di darmi una risposta.

Pochi giorni dopo sono già a Mahdia, una piccola cittadina sulla costa, in un negozio buio e polveroso con scaffali semivuoti. L’uomo dietro il bancone mi guarda incuriosito con la coda dell’occhio. La mia traduttrice è in una vecchia cabina telefonica di legno, al telefono con Riadh.

La brillante luce fluorescente all’interno della cabina fa apparire tutto più scuro da fuori, mettendo in risalto il suo profilo al di là del vetro sporco. Cerco di leggere i movimenti delle sue mani, i suoi lievi spostamenti di posizione, per captare qualche indizio sul contenuto della conversazione. Prendo il mio cellulare dalla tasca e inizio a giocherellarci per distrarmi, ma i miei occhi non riescono a concentrarsi sullo schermo.

La mia traduttrice finalmente riattacca il telefono, spegne l’interruttore della luce ed esce dalla cabina telefonica. Si lascia sfuggire un sospiro e accenna un sorriso esitante.

Riadh ha accettato di incontrarci.

Sulla strada per il paesino fuori Mahdia dove vive Riadh, le mie mani tengono ben stretto il volante. Ho paura.

Non ho idea di quello che scoprirò al mio arrivo. Questa è stata la mia unica pista concreta. E se si rivela inutile? O magari sto per spalancare una porta su quel mondo parallelo di cui avevo sentito parlare a Sfax? Le implicazioni di entrambe queste possibilità sono spaventose.

Intanto ho già riferito a Yafet quello che gli altri parenti dei dispersi mi hanno raccontato su Riadh e che l’ho rintracciato e sto per incontrarlo. “Riadh non aveva mai chiesto soldi, giusto?”, mi chiede Yafet in un messaggio su Facebook Messenger. “Stava solo cercando di aiutare.”

“Esatto. È quello che ho sentito anch’io”, rispondo.

“Questa cosa sembra... vera”, è tutto quello che scrive in risposta.

Parcheggio vicino a una rotonda fuori dalla panetteria di Riadh, una vetrina anonima che manda una luce fredda e dura sul marciapiede. Come esco dall’auto, mi dico che sto affrontando questo incontro come qualsiasi altra intervista che ho fatto. Sto solo andando a fare quello che so fare. Ma stavolta è una cosa diversa, lo sento.

Un paio di minuti più tardi, Riadh entra dalla porta. È basso e squadrato, un po’ tarchiato, con la barba ispida e un cappello che gli copre i capelli cortissimi. Portiamo due sedie e un tavolo sul marciapiede fuori dalla panetteria. È già sera. Riadh inizia a raccontare la sua versione della storia.

Il padre di Riadh aveva iniziato a ricevere strane telefonate da numeri internazionali a fine estate 2014. In un primo momento, non capiva la lingua di chi chiamava. Poi, lo aveva contattato una certa Fiyori che parlava arabo, dicendogli che era eritrea, viveva in Svizzera e stava cercando suo fratello, che era scomparso con gli altri della “barca fantasma”. Il padre di Riadh aveva provato pena per lei, così aveva preso il nome del fratello di Fiyori e lo aveva passato ad amici che potevano controllare se quel nome era stato registrato nelle prigioni nelle città vicine.

Fiyori, la donna eritrea, gli aveva anche chiesto di controllare a Sfax, ma il padre di Riadh non aveva contatti lì. E i suoi amici gli avevano detto che non c’era traccia del nome nelle prigioni in cui avevano controllato. Si era scusato di non poter fare di più per aiutarla, ma la donna continuava a chiamare, a volte nel mezzo della notte, finché lui le disse che aveva fatto quello che poteva e le chiese di non richiamarlo. La conversazione era proseguita con il figlio.

Riadh, come praticamente ogni tunisino che ho conosciuto, ha un amico che aveva tentato di partire dalla Tunisia su una barca diretta in Italia. L’amico, Alaa, gli ha raccontato che la barca aveva iniziato ad affondare poco dopo la partenza. Le persone a bordo erano state salvate dai soccorsi e riportate a Chebba, la città più vicina. I tunisini erano stati lasciati liberi di andare, gli stranieri invece erano stati detenuti nella stazione di polizia, poi era arrivato un autobus a portarli via. Riadh è convinto che siano stati deportati. “Ce n’erano parecchi, di neri africani”, dice.

Quando Fiyori gli aveva mandato una foto del fratello, Riadh l’aveva fatta vedere al suo amico Alaa, che aveva subito riconosciuto il ragazzo: era sulla barca con lui. Riadh voleva aiutare, riferire alla polizia quello che era successo ai migranti caricati su quell’autobus, ma era nervoso. “Volevo fare ricerche per conto mio, ma ho avuto paura della polizia”, spiega.

A questo punto, Riadh non ha altre informazioni da darmi, ma chiede a un amico in motorino di andare a prendere Alaa. Aspettiamo un paio di minuti in un silenzio teso. Finora la storia di Riadh non corrisponde esattamente alle informazioni che abbiamo sulla barca scomparsa, ma ci sono abbastanza dettagli che potrebbero coincidere, soprattutto se Alaa è convinto di aver riconosciuto quel ragazzo scomparso.

Alaa arriva ​​un paio minuti dopo. Porta una tuta grigia, una catena d’oro al polso sinistro e i capelli pettinati meticolosamente con il gel. Ho stampato le foto del ragazzo eritreo che mi erano state inviate dalla sorella. Ne tiro fuori una e gliela porgo sul tavolo.

“È lui”, dice con assoluta certezza. Gli mostro altre foto, tra cui una di gruppo, e anche in quella riconosce subito il ragazzo. “Era proprio di fianco a me per tutto il viaggio. Portava un cappello nero con stampata sopra una W bianca e rideva e scherzava sempre”, dice Alaa.

Prendo il mio cellulare e inizio freneticamente a cercare una foto di Segen. Con la mano un po’ tremante, la mostro ad Alaa. Lui aggrotta la fronte. Non si ricorda di lei, mi dice.

Devo fare un passo indietro e ricostruire la storia dall’inizio.

Alaa mi spiega: la sua barca ha lasciato la Tunisia nel settembre del 2014, due mesi dopo la barca scomparsa.

“Quante persone erano a bordo di quella barca con te? Quanti erano dall’Africa sub-sahariana?”, chiedo.

C’erano 50 persone a bordo, mi dice Alaa (la barca scomparsa ne aveva almeno 243). Sette erano neri, otto o nove erano tunisini e il resto erano siriani (quasi tutti i passeggeri della barca scomparsa venivano dal Sudan o dall’Eritrea). La maggior parte degli stranieri venivano dall’Algeria, continua. Alcuni forse dalla Libia, ma in quel caso, erano comunque venuti via terra, non via mare. Se i dispersi della barca fantasma sono finiti in Tunisia, quasi di sicuro ci sono arrivati per mare.

E il ragazzo? Forse era stato separato dagli altri passeggeri della barca scomparsa ed è finito sulla stessa barca di Alaa. Chiedo altri dettagli: Alaa mi racconta che il ragazzo – che conosceva solo poche parole di arabo – aveva fatto una telefonata alla sua famiglia prima della partenza della barca. Anche in questo caso, le informazioni non corrispondono: il ragazzo che stavo cercando parlava arabo come lingua madre e la sorella non aveva più notizie di lui da fine giugno.

La storia di Alaa – la storia di Riadh, la storia della telefonata – sta cadendo a pezzi davanti a me.

La progressione degli eventi non ha senso. Riadh aveva già parlato con Fiyori prima della traversata di Alaa verso l’Italia. Forse Riadh ha solo messo insieme nella sua mente i due eventi coincidenti.

E poi c’è la telefonata stessa. Riadh insiste ad affermare che né lui né suo padre hanno mai telefonato a un numero eritreo: sono stati gli eritrei a chiamarli per primi. Il padre di Riadh, un insegnante in pensione, dice di non avere idea di come abbiano avuto il suo numero, ma è certo di non aver fatto lui la prima chiamata. “Esco di casa solo per andare a scuola e poi torno a casa. Ogni tanto vado a Mahdia”, mi dice. “Non ho mai nemmeno incontrato un africano della regione sub-sahariana”.

Il fatto che Alaa abbia riconosciuto il ragazzo disperso come uno dei migranti che erano sulla barca con lui mi tormenta. Alaa ne è così certo, ma forse non è un testimone oculare attendibile, visto che nient’altro lo conferma. La fonte della telefonata è ancora un mistero: se i parenti in Eritrea hanno chiamato per primi, come hanno fatto ad avere il numero del padre di Riadh? D’altro canto, non ho nemmeno motivo di pensare che Riadh o suo padre mi stiano mentendo: sono aperti, accoglienti, parlano volentieri e anche quando torno a visitarli una seconda volta non c’è nessuna ostilità e nessuna incoerenza nel loro racconto.

Non posso ignorare le contraddizioni, però. Fiyori mi ha raccontato la sua versione dei fatti, sulle conversazioni che aveva avuto con Riadh e suo padre; poi ho parlato con Riadh e suo padre e sentito la loro versione sulle conversazioni che avevano avuto con lei. Sono due interpretazioni completamente diverse di come sarebbero andate le cose.

Com’è possibile? Come si spiegano queste versioni così diverse?

Riadh e suo padre hanno parlato a Fiyori, la sorella del ragazzo eritreo scomparso, in arabo tunisino, un dialetto che poche persone conoscono al di fuori della Tunisia. Fiyori però parla arabo sudanese. Forse si è perso qualcosa nella traduzione? Forse la storia si è mescolata con altre? Forse parte della storia di Riadh si è aggrovigliata con parti del racconto di Asaad, l’altro tunisino, quello che aveva chiesto soldi per parlare. Forse le storie si sono fatte confuse con il passare del tempo, o sono state influenzate dalle speranze, o si sono mischiate alle menzogne di ​​Ibrahim. È facile immaginare come delle ipotesi possano essersi trasformate in certezze e pochi dettagli vaghi siano stati scambiati per informazioni cruciali.

Ci sono ancora molte cose che vorrei capire, ma devo essere onesto con me stesso: le versioni dell’accaduto semplicemente non corrispondono. Riadh e suo padre non hanno detto quello che i parenti dei dispersi credono di averli sentiti dire – e non sapevano nemmeno quello che mi era stato riferito.

La telefonata si è trasformata in un vicolo cieco.

Quella sera dopo l’incontro con Riadh torno nella mia camera d’albergo esausto, completamente sfinito. La mia mente è ancora alla ricerca di una spiegazione, ma non trova nulla – non ho niente a cui aggrapparmi, è tutto un vuoto.

La mattina dopo mando un messaggio a Yafet e gli riferisco la mia conversazione con Riadh e Alaa.

“Forse ha cambiato la sua versione dei fatti”, mi scrive in risposta. “Forse non vuole dire la verità”.

Gli spiego tutto. Gli dico quello che sto facendo per trovare riscontri alle parti della storia che ancora non hanno avuto risposte. “Sto cercando di non lasciare nulla di intentato, di non perdermi nessun dettaglio”, gli scrivo.

“Lo vedo”, risponde. “Ma non c’è speranza”.

Spingo la sedia indietro al tavolo del bar dove sono seduto, con l’abbondante colazione lasciata a metà davanti a me; il mio computer e il taccuino sparsi intorno. L’energia frenetica che mi ha alimentato si sta esaurendo. Mi prendo il viso tra le mani. La mia mente è intorpidita.

E ora, come proseguiamo? È l’unico pensiero che mi risuona in testa.

È finita qui? So che l’inchiesta deve andare avanti finché non avremo trovato qualcosa di concreto, qualunque cosa sia, o finché non avremo esaurito ogni pista plausibile. Se ci fermiamo qui, tutte le possibilità resteranno aperte. Per i familiari che sono alla disperata ricerca di qualsiasi segno, qualsiasi motivo per mantenere la speranza, quelle lacune e quei vuoti che abbiamo rivelato continueranno a essere una forma di tortura.

“Tutti dobbiamo morire, ma ora so che esiste una fine peggiore della morte: quando qualcuno scompare nel nulla e tu continui a pensarci ogni giorno, a chiederti se è vivo”, mi aveva scritto Hellen, la donna che non ha ancora detto ai suoi genitori che il fratello è disperso.

La pista più promettente che avevo è svanita, ma tutte le domande sono ancora lì. Continuo a pensare di nuovo a quello che sappiamo. Segen, Abi e gli altri hanno lasciato la fattoria, ma Ibrahim e il trafficante in carcere in Italia, Measho, dicono di non averli mai accompagnati alla barca. Nessuno li ha visti arrivare sulla barca – o se qualcuno li ha visti, non ne ha parlato.

Per i parenti dei dispersi, anche questo dettaglio apre così tante possibilità. Forse sono stati rapiti in Libia, venduti come schiavi. “In Libia, queste cose succedono”, mi dice Meron.

Se voglio riuscire a dare una risposta alle domande ancora aperte – iniziare a colmare le lacune – devo tornare indietro e ripercorrere la storia fin dall’inizio. Per questo, però, mi servono nuove informazioni; ho bisogno di sapere in che direzione proseguire la mia ricerca. Ho indagato su un singolo possibile indizio che sembrava promettente, ma parlando con i familiari dei dispersi ho capito che c’è molto altro che non so.

C’è ancora una persona di cui mi hanno parlato, è uno dei familiari che vive in Italia e che a quanto pare ha più informazioni sulla barca scomparsa di chiunque altro. È giunto il momento di andare a incontrarlo.

La versione originale inglese di questo articolo è stata scritta da Eric Reidy e rivista da Bobbie Johnson. La verifica dei fatti è stata curata da Rebecca Cohen e la revisione finale da Rachel Glickhouse. Direzione artistica di Noah Rabinowitz. Le foto delle persone scomparse sono prese da Facebook o fornite dai parenti (i volti sono stati oscurati a tutela della privacy e della sicurezza).

Ci serve il vostro aiuto per continuare.

Vi chiediamo di fare un passo in più dopo la lettura di questa storia: vi invitiamo tutti a collaborare come potete al nostro lavoro di indagine. Finora, i lettori di GhostBoat da tutto il mondo ci hanno aiutato a chiarire i tipi di imbarcazioni usate, rintracciare i movimenti di tutte le barche nel Mediterraneo e creare una banca dati più accurata degli incidenti in mare.

C’è ancora molto di più che possiamo fare per scoprire che cosa è successo.

Ecco come potete collaborare.

--

--

Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia