Ghost Boat

“Qualcuno non ha detto la verità”

Episodio 6: La nostra inchiesta sui 243 profughi dispersi dal giugno 2014 prosegue a Catania: abbiamo incontrato il pubblico ministero e il capo della squadra mobile dell’operazione Tokhla – e cercato nuovi indizi nelle intercettazioni delle telefonate tra i trafficanti responsabili della scomparsa della “barca fantasma”.

Monica Cainarca
15 min readNov 17, 2015

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Di Eric Reidy
Fotografia di
Gianni Cipriano

Parte 6 dell’inchiesta di Ghost Boat (precedenti: 12345)

Stazione di Catania, 8 novembre 2015. Un trafficante si allontana da un gruppo di migranti dopo aver dato loro i biglietti dell’autobus per Roma.

Müncheberg è una piccola e tranquilla città tedesca con un panorama di strade alberate, tetti rossi e campanili nella pianura verde appena ondulata del Brandeburgo, a metà strada tra Berlino e il confine con la Polonia. È lì che la polizia tedesca ha arrestato Measho Tesfamariam lo scorso 2 dicembre 2014 per il suo ruolo nel traffico illegale di migranti.

Antonio Salvago, ex capo della Squadra mobile, ora vice capo di gabinetto della Questura di Catania.

Measho era arrivato in Germania due mesi e mezzo prima, passando per l’Italia dopo la traversata del Mediterraneo dalla Libia. Come tanti profughi che sbarcano sulle coste italiane, aveva proseguito il viaggio per il nord Europa. In Germania aveva presentato domanda di asilo e nel frattempo riceveva un sussidio dal governo tedesco.

Ma Measho non era uno dei tanti profughi: in Libia era stato membro attivo di una rete di trafficanti che ha organizzato il passaggio di migliaia di profughi eritrei – come Segen e Abigail – dal Sudan alla Libia e poi via mare fino in Italia. Era la stessa rete di trafficanti responsabile della scomparsa della “barca fantasma” lo scorso 28 giugno 2014. Measho era il contatto principale per i familiari delle 243 persone che avrebbero dovuto essere a bordo.

E proprio quel ruolo di contatto è stato cruciale nel condurre al suo arresto. Uno dei familiari dei dispersi, Berhane Isayas – che ha perso la sorella, lo zio e il cugino – ha continuato a telefonare a Measho per mesi, incalzandolo con domande su quel gruppo di eritrei svaniti nel nulla. Quando Measho ha intrapreso lo stesso viaggio dei profughi che faceva partire dal Nord Africa, Berhane ha seguito i suoi movimenti e una volta accertatosi del suo arrivo in Germania ha informato le autorità italiane.

La procura di Catania, che già stava indagando su Measho e altri trafficanti nell’ambito della più ampia Operazione Tokhla, ha emesso un mandato di arresto europeo e nel giro di pochi giorni Measho è stato rintracciato e fermato in collaborazione con la Bundespolizei, la polizia federale tedesca.

La stessa operazione Tokhla ha condotto all’arresto di altri nove eritrei in Italia per il loro ruolo nel traffico di migranti verso l’Italia e il nord Europa – il culmine di sei mesi di indagini. Il caso di Measho è particolare: è l’unico ad essere stato arrestato per atti commessi al di fuori dell’Europa.

Stazione di Catania, 8 novembre 2015. Un gruppo di profughi aspetta l’autobus per Roma.

“All’interno dell’organizzazione era responsabile del trasferimento di persone dalla Libia verso l’Italia”, mi ha spiegato Antonio Salvago, che abbiamo intervistato la settimana scorsa a Catania. È vice capo di gabinetto della Questura di Catania e al momento dell’arresto di Measho era a capo della Squadra mobile che ha condotto l’operazione Tokhla.

È stata una delle principali indagini sui trafficanti di migranti in Sicilia – la polizia di Catania ne ha condotte altre due nel 2014 e altre erano in corso anche a Palermo. Tutto è iniziato il 13 maggio 2014, quando la nave Grecale della Marina Militare italiana, una fregata lunga 123 metri, è giunta al porto di Catania con a bordo 206 migranti che erano stati soccorsi a circa 100 miglia a sud dell’isola di Lampedusa. Durante quella traversata, su un barcone di appena 20 metri, erano morte 17 persone, in un’eco inquietante della tragedia avvenuta solo pochi mesi prima. Dopo l’attracco in porto della Grecale e lo sbarco dei superstiti, la polizia ha iniziato come di consueto a raccogliere le loro testimonianze sull’accaduto.

Tra i testimoni c’era una coppia eritrea che ha descritto in modo dettagliato il percorso che li aveva portati fin lì: era iniziato in Sudan, dove vivevano e lavoravano dopo essere fuggiti dall’Eritrea. Per il passaggio dalla Libia all’Europa avevano sborsato 1.600 dollari a testa. Erano stati tenuti per circa due mesi in una fattoria nei pressi di Tripoli prima di essere trasferiti a Zuwarah, dove si sono imbarcati per l’Italia. Hanno raccontato che un uomo eritreo di nome Jamal el-Saoudi aveva organizzato tutto il viaggio, incassando il pagamento e tenendoli nascosti con altri 35 migranti.

La coppia ha fornito alla polizia il numero di telefono di Jamal el-Saoudi, una mossa che ha permesso a Salvago e alla sua squadra di procedere con le intercettazioni telefoniche su quell’utenza – e poi, man mano, anche sui molti altri numeri che si mettevano più spesso in contatto con Jamal. Le intercettazioni hanno permesso di accertare l’esistenza di una rete di trafficanti che si estendeva in tutta Italia, Libia, Eritrea e altri stati nordafricani e organizzava l’ingresso via mare in Italia e la fuga in altri paesi dell’Unione Europea di migliaia di persone a scopo di lucro.

Nei colloqui con i familiari dei dispersi della “barca fantasma”, avevo già sentito parlare di un certo Jamal, ma le informazioni erano confuse. Non era chiaro quale fosse il suo ruolo o anche se fosse il nome dello stesso individuo. I nomi principali citati dai familiari erano quelli dei trafficanti con cui avevano parlato di persona al telefono: in primo luogo Measho e poi Ibrahim, a cui Measho sembrava far capo.

La settimana scorsa abbiamo avuto modo di consultare un documento del tribunale che riporta anche diversi estratti dalle intercettazioni telefoniche svolte per le indagini dell’operazione Tokhla. La lettura ha confermato quello che avevamo già scoperto durante la nostra inchiesta: nell’organizzazione di Jamal el-Saoudi, Measho era un intermediario che gestiva le comunicazioni, la logistica e i pagamenti per i grandi trafficanti.

“Fino alla partenza dalla Libia, [Measho Tesfamariam] era solo un nome”, mi ha detto Salvago. “Non sapevamo del suo arrivo in Italia, ma siamo riusciti a identificarlo una volta che è arrivato in Germania e siamo stati in grado di collegare il nome Measho Tesfamariam al nome che avevamo sentito nel corso delle intercettazioni telefoniche”.

Una minorenne non accompagnata aspetta l’autobus per Roma alla stazione di Catania.

E la barca scomparsa nel nulla? Che cosa avevano da dire in proposito i trafficanti indagati? Nel complesso, su questo punto le intercettazioni sono incomplete e frustranti, con informazioni confuse che – come tutte le altre informazioni raccolte finora sul caso – sembravano intrecciarsi con menzogne, invenzioni, comunicazioni fuorvianti. Sul destino dei 243 dispersi, i trafficanti stessi sembrano altrettanto confusi dei familiari.

Qualche giorno dopo la scomparsa della barca, la polizia ha intercettato una chiamata da Jamal el-Saoudi che parlava proprio di questo caso: sosteneva “di aver fatto imbarcare personalmente 230 persone spiegando che spesso anche quando succedono disgrazie le autorità italiane non permettono ai passeggeri di avere immediatamente contatti con i rispettivi parenti”.

In un’altra telefonata, un uomo chiede a Jamal el-Saoudi se la barca era dotata di un telefono satellitare. Jamal risponde contraddicendo la sua precedente affermazione di avere imbarcato personalmente quelle persone:

“Jamal ribatte che al momento della partenza della nave, si trovava a Sabha [un’altra città della Libia], che tutta l’operazione è stata condotta da Ibrahim e di non conoscere l’utenza [del telefono satellitare]... Jamal addossa tutta la colpa alle incapacità di Ibrahim”.

In un altro punto, un uomo non identificato chiama uno dei complici di Jamal el-Saoudi, che “gli dice d'aver chiamato suo cugino Ibrahim ma quest'ultimo gli ha riferito che la barca è stata sequestrata dalla Marina perché trasportava droga”. Il chiamante “risponde che sono fesserie e che non lo devono prendere in giro, perché nella storia degli sbarchi mai hanno mandato della droga in un barcone”.

Non sono solo le risposte contraddittorie di Jamal el-Saoudi a complicare le cose, però. Tredici giorni dopo la scomparsa dei 243 profughi, la polizia ha registrato una telefonata tra Jonny e Suleman, due membri del gruppo indagato nell’operazione Tokhla:

“Jonny chiede se gli hanno confermato che il barcone è effettivamente partito e [Suleman] replica di sì… Jonny asserisce che probabilmente il barcone può essere approdato a Lampedusa e che da lì i profughi non abbiano avuto la possibilità di telefonare, adducendo che questa sia l’unica spiegazione anche perché se ci fosse stato un naufragio, si sarebbe saputo.”

In un’altra intercettazione un mese dopo la scomparsa, “Suleman chiama Jamal chiedendo informazioni sulle persone del barcone di un mese fa del quale non si hanno più tracce. Jamal lo assicura che in Libia non si trovano più e che sicuramente si trovano in Italia. Suleman gli chiede come mai su 240 persone non ha chiamato nessuno. Jamal risponde di non avere nessuna risposta. Suleman gli suggerisce d’informarsi in Libia nella nuova prigione adibita ai migranti clandestini. Jamal risponde che lo farà anche se è sicuro che tali persone hanno lasciato la Libia”.

Nello stesso periodo, un uomo di nome Hayat contatta Suleman chiedendo se ci sono novità sui passeggeri scomparsi. E aggiunge che “il 3 luglio 2014 è stata trovata una barca vuota in Libia mentre in mare c’erano solo 4 cadaveri”.

Quasi tutte queste conversazioni sembrano partire dalle chiamate dei familiari dei dispersi, che chiedono risposte su quello che è successo. Ma nelle intercettazioni che ho esaminato, i trafficanti non danno nessuna informazione concreta su che fine abbia fatto la barca: non c’è nessun riferimento a un punto di partenza, o a come i passeggeri siano stati trasportati fino alla costa libica dalla fattoria dove erano tenuti nascosti.

I trafficanti non sembrano nemmeno particolarmente interessati alla sorte dei dispersi. Anzi, sembrano preoccuparsi del caso soltanto per il potenziale impatto sulla reputazione della loro organizzazione – e sui loro profitti: per una rete di trafficanti, farsi una cattiva fama per aver perso le tracce dei propri clienti significa rovinarsi il giro d’affari.

Le telefonate intercettate non danno risposte su cosa sia successo ai profughi scomparsi, ma contengono varie informazioni utili e importanti. Il trafficante principale è un eritreo di nome Jamal el-Saoudi. Ha un ruolo di spicco e molti contatti in Libia. Ibrahim, che avevamo già sentito nominare dai parenti dei dispersi, lavora per Jamal, ma non dispone di imbarcazioni proprie. Ci sono alcuni indizi geografici che possono aiutarci a restringere la ricerca – ed emerge anche chiaramente che il caso della barca scomparsa è noto a una vasta rete di individui in Libia. Queste informazioni ci saranno utili nel proseguire la nostra inchiesta.

Eppure, leggendo le trascrizioni delle telefonate intercettate che parlano dei dispersi, mi è venuto spontaneo chiedermi perché le autorità italiane non abbiano fatto di più. Se avessero aperto un’inchiesta specifica su questo caso, forse il mistero sarebbe stato risolto già da tempo?

Il tribunale di Catania.

Al tribunale di Catania, Andrea Bonomo siede a una scrivania affollata di carte in un angusto ufficio al secondo piano. Emana un’aria energica, piegato in avanti con le mani giunte sulla scrivania. Alla parete alle sue spalle c’è un quadro di Van Gogh che raffigura navi in un mare in tempesta.

Bonomo è il pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, responsabile delle indagini contro la criminalità organizzata, incluso il traffico illegale di migranti a scopo di lucro. Pile di faldoni e carte riempiono tutti gli armadi e gli scaffali del suo ufficio.

Salvago è il capo della polizia che ha condotto le indagini Tokhla; Bonomo è il pubblico ministero che ha formulato le accuse. Ha saputo della scomparsa della barca dalle telefonate intercettate e dalle testimonianze dei familiari dei dispersi come Berhane. Ma non ha potuto spingere oltre le indagini sull’accaduto.

Infatti, anche se le telefonate intercettate parlano di quella barca e i trafficanti indagati nell’ambito dell’operazione Tokhla sono responsabili del trasporto dei 243 passeggeri che avrebbero dovuto essere a bordo, la loro scomparsa non rientra nel caso aperto dalla procura italiana contro Measho e i suoi complici. Per Bonomo, non c’erano informazioni sufficienti per avviare un’indagine sul caso specifico.

“Non è nemmeno chiaro se la barca sia affondata, o dove”, spiega. “Per questo non abbiamo giurisdizione. Non ci è proprio possibile indagare in Libia. Abbiamo delle informazioni, ma non possiamo verificarle lì”.

Per via della situazione di instabilità politica in Libia, devastata dalla guerra civile e divisa tra due governi rivali, la squadra investigativa dell’operazione Tokhla non ha potuto confermare le informazioni sull’organizzazione di Jamal el-Saoudi in quel Paese. Senza la capacità di coordinare le indagini con le autorità in Libia, Jamal e Ibrahim sono solo nomi registrati nelle intercettazioni telefoniche e citati dalle testimonianze dei parenti. La polizia italiana non ha nemmeno elementi sufficienti per verificare la loro identità.

La mancanza di prove concrete su ciò che è successo alla barca scomparsa è frustrante anche per Bonomo. Se la barca è partita per poi affondare, il naufragio è avvenuto in acque libiche, internazionali o italiane? Come tutti gli altri che hanno esaminato il caso, Bonomo non sa nemmeno se l’imbarcazione sia effettivamente partita in primo luogo. Senza la possibilità di indagare in Libia e senza altre informazioni specifiche, come avrebbe potuto aprire un’inchiesta?

Ha dovuto concentrare il lavoro di indagine sui trafficanti che operano sul suolo italiano o, come Measho, che hanno attraversato l’Italia prima di proseguire verso altri paesi europei. Ci tiene anzi a precisare che Measho non è accusato di reati riguardanti la scomparsa della “barca fantasma”.

Il pubblico ministero Andrea Bonomo, che ha coordinato l’operazione Tokhla, nel suo ufficio al tribunale di Catania.

Il processo a Measho inizierà a dicembre e secondo Bonomo dovrebbe concludersi con la condanna entro gennaio. “Ha chiesto il rito abbreviato”, spiega Bonomo. Measho è accusato di reati legati al traffico illegale di migranti, ma non è considerato una figura di alto rango nell’organizzazione: in caso di condanna, rischia un massimo di otto anni di carcere. “Normalmente sarebbero dodici anni, ma con il rito abbreviato la pena è più breve”, aggiunge Bonomo.

A sentirlo spiegare i limiti delle indagini e del processo, mi è venuto in mente quello che Berhane mi aveva detto a Milano una settimana prima: “Sono contento che l’abbiano arrestato, è un criminale, ma anche questo non risolve il problema”.

Non è nemmeno detto che il processo si concluda con sentenze di colpevolezza e pene detentive. Alcuni trafficanti del giro, come Measho, sostengono di essere solo profughi come gli altri e di aver contribuito all’operazione solo per pagarsi il passaggio.

Senza la possibilità di indagare oltre in Libia, mi chiedo che cosa abbia ottenuto l’inchiesta nel quadro complessivo. Non ha impedito a Jamal el-Saoudi di continuare a fare affari sulla pelle dei profughi. Non ha posto fine al limbo di incertezza in cui vivono i familiari che cercano i loro congiunti dispersi. E nonostante gli arresti di vari membri dell’organizzazione, non ha certo potuto rallentare il flusso di migranti in tutto il Mediterraneo.

I trafficanti arrestati hanno sicuramente infranto la legge e fanno parte di una rete criminale che ha commesso vari reati, tra cui il sequestro di persona e il mettere in pericolo la vita di migliaia di persone, mandandole in mare su imbarcazioni affollate, inadatte alla navigazione e prive di dispositivi di sicurezza. Salvago stesso, tuttavia, precisa che non c’erano prove per accusarli del reato più grave di tratta degli esseri umani a fini di sfruttamento di manodopera o di prostituzione. Nella migliore delle ipotesi, sono uomini d’affari senza scrupoli in un settore non regolamentato e pericoloso. Nella peggiore delle ipotesi, sono stati direttamente coinvolti o complici delle violenze e delle morti che si verificano regolarmente in Libia e in tutto il Mediterraneo.

Ma arrestare i trafficanti è davvero un passo avanti verso l’obiettivo più ampio di affrontare la crisi dei profughi? Può fornire risposte a persone come Yafet, che cerca ancora la moglie scomparsa, Segen, e la figlia di due anni, Abigail? Può fare qualcosa per evitare altre tragedie di questo tipo?

Persino il documento stesso dalle indagini dell’operazione Tokhla riconosce il più ampio contesto di un sistema inadeguato.

La ragione della clandestinità degli spostamenti, nel territorio nazionale, è evidente atteso che, ai sensi della vigente normativa in materia di immigrazione – in particolare, il regolamento Dublino II (regolamento 2003/343/CE; in precedenza Convenzione di Dublino), che determina lo Stato membro dell’Unione Europea competente a esaminare una domanda di asilo o riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra (art. 51) – un pregresso fotosegnalamento in Italia comporterebbe la necessità di chiedere asilo in Italia, mentre i Nordafricani preferiscono stanziarsi nei citati Paesi Nordeuropei, sia in quanto ambiscono ai programmi di inserimento sociale ivi previsti, sia per ricongiungersi a parenti e congiunti.

Alganesh Fessaha, l’attivista eritrea per i diritti umani che ho intervistato di recente, mi ha spiegato che i profughi sono spinti ad affrontare questi viaggi così insidiosi e spesso mortali, sia per terra che per mare, perché l’alternativa è una lunga permanenza nel limbo squallido dei campi profughi in Etiopia o in Sudan, nell’attesa che le richieste di reinsediamento siano elaborate – un’attesa che può durare fino a dieci anni. E anche in quel caso, il reinsediamento non è comunque garantito.

Dal gennaio 2014, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha riconosciuto circa 340.000 profughi eritrei come “people of concern”, persone a rischio di persecuzione, con diritto alla protezione umanitaria. Da allora, circa 5.000 persone sono fuggite dall’Eritrea ogni mese. Data la situazione dei diritti umani nel loro paese, gli eritrei ottengono quasi sempre il riconoscimento dello status di rifugiati e le richieste di asilo nell’Unione Europea sono generalmente accolte.

Tuttavia, l’assenza di adeguate vie legali per chiedere asilo significa che non esiste un modo ufficiale e approvato di raggiungere l’Europa, se non quella interminabile attesa nei campi profughi. Restano solo due opzioni a chi vuol fuggire dal conflitto, dalla repressione e dalle gravi violazioni dei diritti umani: rimanere fermi in paesi di transito in situazioni precarie, o tentare di raggiungere l’Europa in modo irregolare.

“Una volta che qualcuno arriva qui, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati dice molto chiaramente che non importa se arriva in modo irregolare: ha comunque diritto di presentare domanda di asilo”, mi spiega al telefono Amanda Klekowski von Koppenfels, docente di migrazione e politica presso la Scuola di Studi Internazionali di Bruxelles.

“Attualmente, se un eritreo chiede asilo in Europa, vuol dire che è entrato irregolarmente... Il tentativo di fermare i trafficanti, presumibilmente in nome dei diritti umani, presumibilmente in nome di proteggere le persone dagli abusi a cui saranno sottoposte... potrebbe in ultima analisi precludere ogni possibilità di chiedere asilo in Europa, se si porta alla sua conclusione logica estrema”.

Arrestare i trafficanti soddisfa i dettami della normativa italiana ed europea, ma non ha dato nessuna risposta ai familiari delle 243 persone disperse. Anzi, per il caso della barca scomparsa, la ricerca di una risposta non è mai stata nemmeno una possibilità.

Bonomo nel suo ufficio.

Dopo aver parlato con Bonomo e Salvago e aver esaminato il documento con le intercettazioni, avevamo più informazioni a disposizioni per indirizzare la nostra inchiesta, ma era chiaro che le risposte non c’erano ancora.

Che altro possiamo scoprire a questo punto? Come possiamo indirizzare la ricerca? Ci sono ancora le informazioni che i nostri lettori stanno esaminando, le ricerche in mare e l’operazione Mare Nostrum – che era attiva al momento della scomparsa della barca e potrebbe fornire qualche dato in più sugli avvenimenti di quei giorni.

E poi ci sono gli stessi trafficanti indagati nell’operazione Tokhla.

“Una delle poche persone che potrebbero avere una risposta, se è disposto a parlare, è Measho”, mi ha detto Salvago. Ma sarà possibile organizzare un incontro con lui in carcere italiano? Sarà disposto a incontrarci?

In caso contrario, le risposte al mistero della barca scomparsa si trovano ancora in Libia. E non è certo un posto dove si può andare da un giorno all’altro con un registratore, un taccuino per gli appunti e un cameraman. Ci vorrà un lavoro metodico di pianificazione per individuare le fonti locali più utili con cui parlare e per sviluppare una strategia che ci aiuti a trovare sul campo quelle risposte che ancora ci sfuggono.

La versione originale inglese di questo articolo è stata scritta da Eric Reidy in collaborazione con Martino Galliolo e curata da Bobbie Johnson. La verifica dei fatti è stata curata da Rebecca Cohen e la revisione finale da Rachel Glickhouse. Traduzione di Monica Cainarca. Direzione artistica di Noah Rabinowitz. Fotografia di Gianni Cipriano per Medium.

Potete aiutarci anche voi a scoprire la verità.

Vi chiediamo di fare un passo in più dopo la lettura di questa storia: vi invitiamo tutti a collaborare come potete al nostro lavoro di indagine. Al momento, stiamo esaminando attentamente i movimenti delle navi mercantili, lavorando sui possibili indizi forniti dai dati geografici e leggendo i post condivisi sui social media dai parenti dei dispersi.

C’è ancora molto di più che possiamo fare per scoprire che cosa è successo. Ecco come potete collaborare.

Leggi anche le parti precedenti (12345) dell’inchiesta del team di GhostBoat e scopri come collaborare.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia