Il piano nazionale scuola digitale per punti

marco
Il digitale a scuola
4 min readNov 3, 2015

Il 27 ottobre la ministra Giannini ha esposto il Piano Nazionale Scuola Digitale (138 pagine che chi vuole può scaricare e leggere dal sito del Miur). Ne parla, proprio qui su Medium, un articolo di Luca Corsato dal titolo “Scuola digitale: come possiamo fare innovazione in classe?”. Ho già replicato in parte al suo interessante articolo, e approfitto qui per continuare la discussione, partendo da quanto ho già scritto in precedenza, onde non ripetermi. Visto che nel mio saggio Il digitale e la scuola italiana ho parlato di ciò che hanno fatto i ministri Profumo e Carrozza e ho menzionato solo superficialmente il ministero di Stefania Giannini, mi sembra opportuno integrare la questione con una rapida analisi di questo Piano Nazionale.

Molto in sintesi, i punti essenziali sono 6. Qui mi interessa metterli in relazione con quanto già scritto nel mio saggio e in questo spazio Medium dedicato al libro.

1 Internet veloce i tutte le classi — “Entro il 2020 tutte le scuole saranno raggiunte dalla fibra ottica, poi seguirà il Wifi diffuso, per un investimento totale di 89 milioni di euro.” In un calcolo precedente a opera del Sole 24 ore, menzionato nel mio saggio, si parla di 3 miliardi di euro per il cablaggio in fibra degli edifici scolastici. Speriamo solo che il divario non sia così ampio e i calcoli del Ministero siano più vicini alla realtà.

2 Innovazione permanente per la didattica — “devono essere formati in una logica di innovazione permanente: le tecnologie digitali diventano un supporto per la realizzazione di nuovi modelli educativi e la progettazione operativa di attività didattiche”. Inoltre, è previsto un percorso di formazione per i neoassunti, partendo da quest’anno con 28mila docenti. Le risorse a disposizione ammontano a 10 milioni l’anno. Più che di “nuovi” modelli educativi, la tendenza mi sembra piuttosto quella di valorizzare, proprio grazie alle logiche del digitale (parlo di “logiche” non a caso, riprendendo un ottimo spunto sorto dal recente seminario Re-thinkin Education) modelli educativi del passato — tra tutti, il costruttivismo — e modellarli, integrarli e accrescerli in funzione delle attuali esigenze e delle premesse poste dallo stesso digitale (vedi capitolo 3 del saggio e questo post)

3 Animatori digitali in ogni scuola — Diciamolo, il termine “animatore” è a dir poco infelice, per non dire peggio. Più interessante mi sembra la definizione del suo ruolo, che tra i vari compiti ha quello di “favorire le relazioni con le reti di scuole maggiormente attive sul fronte del digitale in modo da condividere le esperienze.” Si tratterebbe, in pratica, di quella fatidica necessità di “fare rete”, cioè rendere le cosiddette best practices (come per esempio queste) in pratiche replicabili (cap. 6 del saggio)

4 Cambia la forma della classe — Sin dalle prime pagine del mio saggio ho messo in evidenza l’importanza degli spazi: “infrastrutture e formazione dovrebbero quindi rappresentare le priorità principali per il Ministero dell’Istruzione, dal momento che non è ovviamente possibile rinnovare la didattica senza innovare le metodologie e i luoghi d’esercizio dell’insegnamento.” (cap. 1) Il Miur stanzia 140 milioni per la realizzazione di ambienti per la didattica digitale integrata: aule “aumentate” (qualsiasi cosa questo significhi), spazi alternativi e laboratori mobili. Più interessante la valorizzazione di spazi già presenti e comuni, come le biblioteche, che possono diventare luoghi dove proseguire o completare i progetti e le attività laboratoriali.

5 Competenze digitali e coding — Qui si parla di “alfabetizzazione del nostro tempo” e “piena cittadinanza digitale”. Siamo in pratica a quel passaggio da confidenza a consapevolezza tecnologica di cui ho tanto parlato sia nel saggio sia qui su Medium; sul coding poi mi sono pronunciato varie volte, tra cui qui, dove parlo di Coderdojo e delle ragioni per cui sarebbe importante insegnare ai ragazzi i linguaggi informatici.

6 Ognuno col proprio device — Questo è il punto che mi lascia più perplesso. Nel capitolo del mio saggio intitolato “Pro e contro”, elenco per punti le obiezioni dei cosiddetti “apocalittici”, alcune non del tutto irragionevoli. Sul cosiddetto BYOD (Bring Your Own Device, in pratica l’acquisto del dispositivo dal parte della famiglia), la perplessità più forte riguarda la piena e sostenibile funzionalità dei dispositivi: si sa bene infatti che si tratta di macchine e come tali sono soggette a guasti improvvisi e diventano obsolete a un ritmo molto rapido; che farà uno studente con un dispositivo poco performante alle prese con materiali didattici che non riesce a caricare bene o su cui non può lavorare come altri suoi compagni, magari più abbienti e quindi in possesso degli ultimi modelli? A questo aggiungerei anche la considerazione esposta in un post qui su Medium di qualche tempo fa: meglio non concentrarsi troppo sui dispositivi, che da un anno all’altro possono cambiare (fino al 2010 non sapevamo cosa fosse un tablet e ora sembra diventato il feticcio della “didattica 3.0") e pensare più all’educazione. Insomma — e anche in questo caso mi ripeto — “no all’ossessione dei dispositivi, sì a una profonda riflessione sui metodi di apprendimento. Solo così si potrà andare oltre la sterile dicotomia digitale vs cartaceo e procedere piuttosto a una ridefinizione dei contenuti in funzione di un ripensamento generale delle finalità della scuola.

Tutto questo, beninteso, a patto che le belle parole del Piano Nazionale si concretizzino, se non del tutto almeno in parte. E su questo ho veramente molte perplessità.

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marco
Il digitale a scuola

redattore editoriale, scrivo di tecnologie applicate alla didattica.