Ghost Boat

“Non ho mai sognato di vivere in Europa, ma non potevo restare nel mio paese”

In fuga dalla guerra e dalla repressione, i profughi affrontano violenze, rapimenti e militanti dell’ISIS — ma l’ostacolo maggiore è quello creato dalle contraddittorie politiche occidentali.

Monica Cainarca
17 min readNov 25, 2015

Di Eric Reidy con la collaborazione di Martino Galliolo
fotografia di
Gianni Cipriano

Parte 7 dell’inchiesta di Ghost Boat (parti 123456)

Roma, 15 novembre 2015. Alcuni profughi eritrei pregano e cantano nella Chiesa ortodossa tewahedo eritrea di San Michele.

Baraket Akefe è stato uno dei fortunati. È arrivato in Italia affrontando la traversata via mare dalla Libia nell’ottobre 2004, anni prima dell’esistenza di una specifica missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo per i profughi in fuga da guerre e persecuzioni in Africa e in Medio Oriente. Come le centinaia di migliaia di persone venute dopo di lui, ha affrontato la traversata in mare su una piccola imbarcazione di legno. A bordo c’erano circa altri 50 eritrei.

Hanno passato più di un giorno in acqua, ma alla fine la barca è giunta a destinazione. “Per fortuna, siamo arrivati ​​sani e salvi direttamente a Lampedusa”, mi racconta, seduto nell’ampio atrio di marmo sbiadito del Centro Baobab, un vecchio edificio abbandonato nel centro di Roma che oggi è occupato da più di mille profughi eritrei rimasti senza casa.

Oggi, uno sbarco diretto di quel tipo sulle coste italiane è in gran parte teorico. Nessuno dei profughi arriva più in Italia sulla stessa barca da cui è partito dalla Libia: vengono tutti soccorsi prima in mare.

Roma, 14 novembre 2015. Baraket Akefe nell’atrio di un edificio occupato dai profughi nel centro della capitale.

Tranne quando i soccorsi non arrivano. Nel giugno 2014, quando la “barca fantasma” su cui stiamo indagando è scomparsa con i suoi 243 passeggeri, c’era un grande dispiegamento di risorse e navi nel Mediterraneo specificamente adibite alle operazioni di ricerca e soccorso. Quell’anno, circa 160.000 profughi, per una media di più di 400 al giorno, sono stati soccorsi in mare dalla missione italiana Mare Nostrum.

Se la barca che stiamo cercando è effettivamente partita dalla costa libica (e non ne abbiamo ancora la conferma), con una presenza così massiccia di mezzi che perlustravano il mare per soccorrere le barche in difficoltà, come è possibile che il suo percorso non abbia lasciato alcuna traccia?

La costa del Mediterraneo vicino a Ventimiglia.

Anche Abrham ha affrontato la stessa traversata dalla Libia su un piccolo peschereccio in legno – proprio come Baraket, ma dieci anni dopo, nell’aprile 2014. Era nello stretto spazio sotto il ponte, con altre 80 o 90 persone. “Non potevi nemmeno respirare, eravamo tutti accalcati l’uno sopra l’altro e faceva caldissimo perché eravamo vicino al motore”, mi racconta al telefono dai Paesi Bassi, dove vive attualmente.

A bordo del peschereccio c’erano più di 250 profughi in tutto, quasi tutti eritrei, fatta eccezione per alcuni siriani e il capitano tunisino.

Come Baraket e come decine di migliaia di altri eritrei fuggiti dal loro ​​paese negli ultimi anni, Abrham se n’era andato per evitare il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato imposto dal regime e per avere la possibilità di rifarsi una vita altrove. Dopo più di dieci anni servizio come dentista negli ospedali militari, aveva chiesto il trasferimento a un’amministrazione civile. Quando la richiesta è stata negata e le forze di sicurezza hanno iniziato a tenerlo sotto controllo, ha scelto la fuga.

“Ho fatto tutto il possibile per restare in Eritrea con la mia famiglia... Ma temevo per la mia vita, così ho lasciato i miei cari e il mio amato paese”.

Non voleva venire in Europa, ma ha intrapreso quel viaggio nonostante tutti i pericoli che comporta, perché non sentiva di avere altra scelta.

“Non ho mai sognato di vivere in un paese europeo”, mi ha detto. “Ma non potevo stare nel mio paese”.

Abrham è fuggito dall’Eritrea nel mese di giugno 2013 insieme al suo amico d’infanzia, Gebsha. Insieme hanno attraversato il confine con l’Etiopia e i campi profughi dall’altra parte, fino a giungere a Khartoum, in Sudan.

Poi, il 19 marzo 2014, le loro strade si sono divise. Abrham è partito da Khartoum per raggiungere la Libia, senza l’amico. “Gebsha ha avuto sfortuna. È partito dopo di me”, racconta Abrham.

E così, invece di imbarcarsi sullo stesso peschereccio di Abrham, Gebsha è finito tra i 243 passeggeri della “barca fantasma”, tutti scomparsi nel nulla dal 28 giugno 2014. Anche il cugino di Abrham e un altro suo caro amico sono tra i dispersi.

Il cimitero delle barche nel sud della Sicilia: l’interno di una barca usata dai trafficanti .

Se il viaggio di quei passeggeri scomparsi fosse andato secondo i piani, sarebbe stato molto simile a quello di Abrham.

La barca su cui Abrham ha viaggiato era partita dalla costa della Libia a metà aprile 2014. Erano circa le due di notte. Il mattino, dopo otto ore nell’oscurità opprimente e soffocante dello scafo, Abrham era riuscito a salire sul ponte superiore, affollato da più di 150 persone.

Verso le sei di sera, le condizioni meteorologiche del Mediterraneo iniziarono a peggiorare. La situazione si stava facendo difficile.

“C’erano onde altissime e un vento molto forte. Il tunisino al timone della barca è svenuto. Ci siamo ritrovati in mare aperto, senza il capitano”.

Tutti hanno iniziato a farsi prendere dal panico: urlavano, si agitavano e spintonavano sul ponte. Alcuni sono svenuti, proprio come il capitano, quando le onde hanno iniziato a scuotere e inondare la barca.

Solo un colpo di fortuna ha fatto evitare il peggio: uno dei passeggeri siriani è riuscito a mantenere la calma e prendere il comando dell’imbarcazione. Il suo intervento ha calmato il panico e con lui al timone la barca ha viaggiato per altre quattro ore, forse cinque, per poi finalmente essere intercettata da una nave delle operazioni di ricerca e soccorso.

“Era una grande nave con le bandiere dell’Italia e dell’Unione europea”, ricorda Abrham.

Il mattino dopo, quella nave aveva soccorso più 1.000 persone in tutto da varie altre imbarcazioni. Era una nave della Marina militare italiana che operava nell’ambito della missione di ricerca e soccorso Mare Nostrum.

Se la traversata della barca scomparsa fosse stata come questa, come tante altre traversate del Mediterraneo dello scorso anno, si sarebbe conclusa allo stesso modo: con i soccorsi. Invece, quei passeggeri sono svaniti nel nulla.

Nunzio Martello, Direttore Marittimo della Guardia Costiera per la Sicilia Orientale, nel suo ufficio a Catania.

Durante il periodo in cui era attiva Mare Nostrum, cinque navi della Marina militare e altre della guardia costiera italiana pattugliavano una zona di ricerca e soccorso di oltre 500.000 chilometri quadrati – un’area più grande dell’intero stato della California. La sorveglianza era condotta da aerei da ricognizione e aeromobili a pilotaggio remoto, oltre ai radar costieri e a un sistema di identificazione per tracciare i movimenti delle imbarcazioni registrate. Le navi italiane rispondevano anche regolarmente alle richieste di soccorso inviate da barche che si trovavano al di fuori dell’area di ricerca e soccorso designata dalla legge.

Nonostante gli oltre 3.000 morti in mare tra i profughi che hanno attraversato il Mediterraneo nel periodo in cui era operativa Mare Nostrum, era considerata una missione efficace di ricerca e soccorso. L’alto numero di morti è più un riflesso dei pericoli insiti in quelle traversate – le imbarcazioni inadatte, le pessime condizioni in cui viaggiano i profughi, la mancanza di piloti veri e propri – piuttosto che dell’efficacia dell’operazione di soccorso.

Prima di Mare Nostrum, era più probabile che si verificasse un naufragio senza lasciare alcuna traccia: all’epoca non c’erano navi adibite in modo specifico alle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. I soccorsi c’erano, ma l’area di intervento era molto ridotta.

“Tutti gli stati e tutte le navi hanno l’obbligo di prestare soccorso a una barca che si trova in difficoltà in mare. Ma quello che mancava [prima Mare Nostrum] era un’operazione apposita di pattugliamento in mare”, mi spiega Matteo De Bellis, ricercatore di Amnesty International specializzato in missioni di ricerca e soccorso.

Così, nei due decenni di migrazione irregolare dalla Libia prima di Mare Nostrum, quei barconi carichi di gente spesso erano soccorsi dalle navi più vicine – di qualsiasi tipo fossero, anche pescherecci e navi cisterna. Oppure, come nel caso di Baraket, riuscivano a raggiungere da soli le coste italiane.

Mulughietà Nayu, un profugo eritreo a Roma che oggi ha 44 anni, è stato salvato in mare da alcuni pescatori italiani nel febbraio del 2003. Era partito dalla costa della Libia imbarcandosi su un peschereccio di 9 metri con 80 persone a bordo. Era inverno e faceva freddo.

Roma, 17 novembre 2015. Mulughietà Nayu, 44 anni, sbarcato in Italia come profugo dall’Eritrea nel 2004.

“Abbiamo passato tutta la notte a svuotare l’acqua accumulata nella barca usando delle semplici tazze”, mi racconta Mulughietà in una fredda serata d’autunno nel cortile del centro profughi dove lavora come volontario.

È stato in mare con gli altri profughi su quella barca per tre giorni interi, prima di essere trovati e soccorsi da un peschereccio. “Era mattina presto, pioveva e il mare era sempre più mosso”, mi racconta nel suo inglese con lieve accento britannico imparato nelle scuole missionarie della sua infanzia. “Siamo stati solo fortunati”.

Prima di Mare Nostrum, chi non erano così fortunato aveva molte meno possibilità di farcela. A volte, in caso di naufragio o se la barca inviava il segnale di richiesta di soccorso, non veniva nessuno a recuperare i sopravvissuti — o i corpi. Come mi avevano già spiegato i pescatori nel sud della Tunisia, a volte c’erano così tanti cadaveri in acqua che in quelle aree di mare non si poteva più pescare.

Il comandante Rosario Capodicasa, capo del reparto operativo della direzione marittima della Sicilia orientale a Catania.

Man mano che la primavera araba in Libia e altre nazioni del Medio Oriente e Nord Africa ha dato luogo a repressione, instabilità, caos politico e conflitti continui, è aumentato anche il numero di migranti e profughi che rischiano la traversata del Mediterraneo. Ma è stato solo dopo le 360 vittime della tragedia di Lampedusa dell’ottobre 2013 – e altre 34 in un incidente una settimana dopo – che Mare Nostrum è stata avviata.

Dopo solo un anno, tuttavia, la volontà politica a sostegno dell’operazione era già svanita. Di fronte a una spesa di 9 milioni di euro al mese, il governo italiano era in difficoltà a finanziare da solo un programma così costoso, senza il sostegno di altri governi europei che non volevano contribuire.

Molti di quei governi, in particolare il governo inglese di David Cameron, fecero addirittura pressioni all’Italia per chiudere del tutto il programma: secondo loro, una missione di salvataggio così efficace era un fattore di attrazione che spingeva un numero sempre maggiore di profughi ad attraversare il Mediterraneo e chiedere asilo in Europa.

Entro la fine del 2014, Mare Nostrum era stata sospesa. Triton, la missione congiunta europea che l’ha sostituita, aveva una portata molto più limitata. Era stata concepita come operazione di controllo delle frontiere, non come missione di ricerca e soccorso. Di conseguenza, l’area di intervento era limitata a circa 30 miglia nautiche dall’Italia e da Malta, invece di estendersi a tutto il Mediterraneo centrale.

La maggior parte dei naufragi avviene non lontano dalla costa libica, il che significa che spesso le navi Triton ci mettevano anche sei o sette ore per rispondere a una chiamata di soccorso. “Quando la gente deve nuotare per quattro, cinque, sei ore di fila in attesa dei soccorsi, la stragrande maggioranza non ce la fa”, dice Matteo De Bellis di Amnesty International.

Nonostante le tesi politiche sul ruolo di attrazione delle operazioni di ricerca e soccorso, il ridimensionamento della missione Triton non ha agito da deterrente. Anzi. In un primo momento, il numero di migranti nel Mediterraneo nel 2015 era uguale a quello del 2014 ma dall’inizio della primavera è aumentato sempre più. L’unica differenza: non c’era nessuno a prestare soccorso.

“Il numero delle vittime era enormemente più alto”, dice De Bellis.

Nei primi quattro mesi del 2015, il numero di morti in mare tra i profughi è stato più di 30 volte superiore rispetto allo stesso periodo nel 2014. A fine aprile, i morti in mare erano più di 1.500.

Dopo due tragedie con più di mille vittime nel giro di una sola settimana, i paesi europei sono stati costretti a riconoscere la portata della crisi e cambiare le loro politiche. In un vertice di emergenza si è deciso di ampliare l’area di ricerca e di soccorso di Triton e impegnare più risorse per l’operazione. I governi europei – questa volta incluso quello di Cameron – hanno coordinato gli sforzi con ONG come Medici Senza Frontiere e inviato ognuno le proprie navi per pattugliare le acque al largo della costa libica.

Il risultato è stata una missione congiunta, con un agglomerato di navi sotto diverse bandiere nazionali o appartenenti a organizzazioni non governative. Inizialmente, l’organizzazione della missione era decentrata, a parte la comunicazione con il MRCC di Roma, il centro di coordinamento di soccorso marittimo della Guardia Costiera italiana. Dallo scorso aprile, invece, le diverse navi di soccorso che arrivano nel Mediterraneo sono state inserite in una nuova missione europea chiamata “operazione Sophia”, mentre Triton ha proseguito con un budget più alto, risorse aggiuntive e una zona operativa più ampia.

La missione Sophia è di natura civile, non militare: lo scopo è combattere il traffico di migranti, sequestrando e affondando le barche utilizzate dai trafficanti. Non è strettamente un’operazione di salvataggio, ma svolge comunque attività di ricerca e soccorso.

Nonostante la sua concezione, in sostanza, in combinazione con Triton, risulta altrettanto efficace di Mare Nostrum nel soccorrere i migranti in mare, secondo De Bellis.

“In base ai dati che abbiamo, la copertura è simile a quella di Mare Nostrum ed è soddisfacente per il momento”, ha detto. “Ma dovremo vedere all’inizio dell’anno prossimo... dovremo vedere se ci sono risorse sufficienti in mare.”

Se la crisi dei profughi non resta al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, la volontà politica a sostegno di una missione di ricerca e soccorso potrebbe svanire di nuovo, proprio come un anno fa. Per ora, però, un conglomerato di nazioni europee e di ONG sta mantenendo una notevole presenza nelle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale.

Il cortile del Centro Baobab a Roma. Il centro offre alloggio, pasti e vestiti ai profughi nella capitale e a quelli diretti verso il Nord Europa.

Mentre parlo con Mulughietà, il volontario, nel cortile del centro profughi Baobab a Roma, sta arrivando un gruppo di adolescenti eritrei, giunti qui in autobus dalla Sicilia dopo la traversata dalla Libia. I loro racconti su come sono stati salvati in mare rispecchiano il mosaico di stati coinvolti nello sforzo di pattugliamento del Mediterraneo.

I nuovi arrivati ​​entrano uno dopo l’altro dal cancello. Portano pantaloni lunghi e felpe con il cappuccio stretto intorno alla testa per proteggersi dal freddo. Molti indossano sandali di plastica, per lo più senza calze, alcuni portano piccoli sacchetti di plastica con dentro i loro pochi averi.

Luciano Maccioni, un volontario al Centro Baobab, chiude uno dei cancelli d’ingresso.

Come gli altri 35.000 profughi passati per il centro Baobab dalla sua riapertura lo scorso maggio, i nuovi arrivi ​​restano per un periodo che va da un paio di giorni a un paio di settimane, prima di proseguire oltre il viaggio.

Gli altri profughi venuti prima di loro sono seduti a gruppetti nel cortile, a fumare sigarette e chiacchierare a bassa voce. Quando ​​entrano i nuovi arrivati, cala il silenzio: nel freddo bagliore arancione delle luci sopra il cortile, i gruppi si studiano a vicenda, cercando un volto familiare. Alcuni si alzano ad abbracciarsi: hanno riconosciuto i compagni di viaggio, incontrati lungo il percorso e poi persi di vista. Altri stanno solo a guardare.

Un gruppo di giovani profughi eritrei chiacchiera fuori dal Centro Baobab.

Poi, seduti in cerchio, alcuni eritrei cominciano a raccontare le loro storie di come sono arrivati fin qui. Quasi tutti sono stati tenuti in una prigione sotterranea in Libia per circa cinque mesi, prima di essere portati alla costa per imbarcarsi. Durante la prigionia, non avevano mai visto il sole. Gli veniva passato da mangiare attraverso la fessura sotto la porta delle celle. Quando sono scappati di prigione con altri 250, due sono stati fucilati.

Questi giovani, tutti tra i 17 e i 27 anni, raccontano di amici rapiti e tenuti in ostaggio dai trafficanti, o sequestrati dai militanti dello Stato islamico. “Abbiamo capito che erano dell’ISIS perché avevano la bandiera nera”, mi dice uno di loro.

Tutti sono stati picchiati e hanno subito abusi di ogni tipo. Hanno facce giovani. Alcuni sorridono e ridono volentieri. Altri stanno seduti chini, sembrano assorti in ricordi cupi, lo sguardo lontano. Anche i volti più sorridenti si fanno tesi mentre raccontano le loro esperienze.

Uno striscione su un muro del Centro Baobab a Roma.

Ci sono racconti di ragazze che sono state catturate, violentate e costrette a fare da mogli ai militanti. Alcune sono scappate, altre sono ancora in Libia. “Ci odiano”, mi dice una di loro. “Nessuna delle ragazze arrivate fin qui ci è arrivata senza essere stata stuprata”.

Una volta raggiunta la costa, alcuni si erano imbarcati su piccoli gommoni gonfiabili. Altri erano partiti su pescherecci in legno più grandi. Tutti erano stati stipati a bordo con gli altri, trasportati come merce, finché non sono stati salvati dalle navi di soccorso norvegesi, inglesi, italiane o di altre nazioni. Nessuno si era fatto prendere le impronte digitali: erano tutti diretti oltre verso il nord Europa – in Inghilterra, Svezia, Germania, Svizzera.

Dopo un viaggio così traumatico, il sistema di ricerca e soccorso aveva funzionato per questi ragazzi. Come poteva aver fatto cilecca per i passeggeri della barca scomparsa, senza che nessuno ne sapesse nulla?

Un gruppo di profughe eritree ascolta la messa nella nella Chiesa ortodossa tewahedo eritrea di San Michele a Roma.

Quando ho iniziato a indagare sulla scomparsa della “barca fantasma” con i 243 profughi eritrei, tutti gli esperti con cui ho parlato mi davano la stessa risposta: era inaudito per un’imbarcazione di quelle dimensioni, con così tante persone a bordo, sparire così nel nulla. Le loro risposte hanno reso il mistero ancora più impenetrabile.

Quando ho posto la stessa domanda a De Bellis di Amnesty, la sua risposta è stata simile, ma con una conclusione leggermente diversa: sì, certo, è inaudito… ma non significa che non sia mai successo.

“Mi sembra abbastanza evidente che ci deve essere stato almeno un naufragio di cui non sappiamo nulla”, dice De Bellis. Basta vedere il numero di traversate rispetto alle risorse impiegate. “È molto probabile che sia successo in passato – e può succedere di nuovo, anche con l’operazione attuale di pattugliamento… soprattutto se a bordo non c’è un telefono satellitare”.

Già, il telefono satellitare.

Ibrahim, il trafficante con cui Berhane Isayas aveva parlato al telefono, ha detto di non averlo dato in dotazione ai passeggeri della barca scomparsa – un particolare che sembra suggerire due ipotesi ben diverse.

Finora, mi era stato detto che i trafficanti danno sempre un telefono satellitare alla gente che imbarcano. La mancanza del telefono è un particolare talmente strano da far pensare che sia successo qualcosa di losco. Forse i passeggeri sono stati venduti come schiavi o catturati?

Ora, però, De Bellis mi dice che nei suoi colloqui con altri profughi soccorsi aveva sentito parlare di barche spedite in mare senza telefoni satellitari a bordo. Anche Abrham mi ha detto che sulla sua barca non ce n’erano.

Forse i dispersi sono effettivamente partiti dalle coste libiche, ma quando è arrivato il momento di fare quella telefonata cruciale per chiedere soccorso, non avevano l’attrezzatura necessaria. Potrebbe essere proprio questo il motivo per cui la barca è scomparsa senza lasciare traccia.

È una spiegazione razionale, almeno. Non costituisce certo una prova conclusiva, ma è una teoria che vale la pena esplorare.

Ed è una teoria che fa sorgere nuove domande: se non c’era un telefono satellitare a bordo, c’erano altri modi di intercettare quella barca? Il suo percorso in mare può essere stato registrato sui sistemi radar o satellitari di rilevamento nel Mediterraneo, per esempio? Le altre navi in quell’area possono aver visto qualcosa sui loro sistemi?

Il centro di coordinamento di soccorso marittimo (MRCC) di Roma sembra il posto giusto a cui rivolgersi per rispondere a queste domande. Ma è difficile avere una risposta dalla Guardia Costiera. Dopo una settimana di attesa, ci hanno negato un’intervista di persona, mandandoci invece un’email generica che non ha risposto a nessuno dei nostri quesiti specifici.

Dopo lunghe discussioni al telefono, finalmente sono riuscito a mettermi in contatto con il comandante Filippo Marini, portavoce della Guardia Costiera italiana. Al telefono è stato più specifico, spiegandomi che nella maggior parte dei casi l’avvio degli interventi di soccorso parte proprio dalle chiamate dai telefoni satellitari, ma a volte i barconi carichi di profughi sono avvistati da altre navi, da elicotteri o altri sistemi di sorveglianza.

Senza sapere se la “barca fantasma” sia partita in primo luogo, né da dove sia partita di preciso, secondo Marini è impossibile sapere dove cercarne le tracce – ma, precisa, esiste comunque la possibilità che ci siano delle tracce.

“Bisogna circoscrivere l’area e chiarire di cosa stiamo parlando”, spiega Marini. “Se [la barca era] molto vicina alla Libia, probabilmente saranno i sistemi di rilevamento delle autorità libiche, se sono ancora disponibili... a essere in grado di intercettare queste imbarcazioni”.

Con l’aiuto dei lettori, abbiamo individuato 40 navi al largo della costa della Libia nello stesso periodo in cui la barca scomparsa avrebbe dovuto intraprendere la traversata: se queste navi stavano utilizzando il giusto tipo di apparecchiature radar, c’è la possibilità che abbiano registrato i movimenti della barca.

Fattori come le condizioni atmosferiche e le dimensioni della barca hanno un impatto su quello che il radar è in grado di registrare, e non è ancora chiaro esattamente fin dove arrivava il sistema italiano di radar e sorveglianza satellitare. Marini non ha potuto darmi i dettagli precisi, ma ha detto che avrebbe inoltrato le nostre domande agli esperti tecnici per una risposta più precisa in merito.

Le informazioni che il comandante Marini ci ha fornito non ci permettono di completare il quadro, ma almeno ci danno un’idea su dove dovremo cercare. Forse riusciremo a trovare il percorso della barca registrato da qualche parte, o almeno stabilire dove non si trovava.

Il cimitero delle barche nel sud della Sicilia.

Allo stesso tempo, ho lavorato per organizzare un’intervista con Measho, il trafficante oggi in carcere a Catania in attesa di processo.

Measho Tesfamariam.

Dalla documentazione giudiziaria e dalle dichiarazioni di alcuni testimoni, sappiamo che Measho era stato nella fattoria nei pressi di Tripoli nello stesso periodo in cui vi erano stati tenuti i dispersi. È una delle ultime persone ad averli visti prima della loro scomparsa. Parlare con lui può essere un passo importante per capire come indirizzare le nostre indagini in Libia, ma sarebbe stato disposto a incontrarci? Aveva avuto esperienze negative con altri giornalisti – e che incentivo avrebbe a parlare?

Quando sono stato in Sicilia a parlare con il pubblico ministero che si è occupato dell’indagine Tokhla, ho incontrato anche il giudice che presiede il processo. Entrambi erano aperti all’idea di una nostra intervista con Measho.

Ma questo non significa granché senza il suo consenso, o il consenso del suo avvocato.

Così, dopo vari tentativi, sono riuscito ad avere il numero di cellulare dell’avvocato e l’ho contattata. Si è detta anche lei disponibile all’idea, ma alla fine la decisione spettava a Measho.

Qualche giorno fa, ho ricevuto la risposta: ha accettato di incontrarci.

La prigione di Catania.

L’unica cosa che resta da fare è affrontare la burocrazia italiana: per intervistarlo in carcere serve l’autorizzazione da cinque diverse autorità. Al momento siamo in attesa dell’autorizzazione definitiva.

Se tutto va bene, presto parleremo con una delle ultime persone che ha visto i passeggeri della “barca fantasma”. Le informazioni che potrebbe avere – o quelle che è disposto a darci – potrebbero fornire indizi cruciali sulla sorte delle 243 persone scomparse. Tutti quello che ci serve ora è un sì ufficiale.

La versione originale inglese di questo articolo è stata scritta da Eric Reidy in collaborazione con Martino Galliolo e curata da Bobbie Johnson. La verifica dei fatti è stata curata da Rebecca Cohen e la revisione finale da Rachel Glickhouse. Direzione artistica di Noah Rabinowitz. Fotografia di Gianni Cipriano per Medium.

Potete aiutarci anche voi a scoprire la verità.

Vi chiediamo di fare un passo in più dopo la lettura di questa storia: vi invitiamo tutti a collaborare come potete al nostro lavoro di indagine. Al momento, stiamo esaminando in modo più specifico i dati su una serie di imbarcazioni che si trovavano in mare in quell’area e il ruolo delle figure ai vertici della rete di trafficanti coinvolti.

C’è ancora molto di più che possiamo fare per scoprire che cosa è successo. Ecco come potete collaborare.

Leggi anche le parti precedenti (123456) dell’inchiesta del team di GhostBoat e scopri come collaborare.

--

--

Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia