Ghost Boat

“Il fatto è che non tutte le vite umane hanno la stessa importanza”

Episodio 8: Perché alcune tragedie fanno presa sull’opinione pubblica e altre vengono ignorate? È una disparità con conseguenze drammatiche per molti profughi — inclusi i 243 dispersi che stiamo ancora cercando.

Monica Cainarca
14 min readDec 17, 2015

Di Eric Reidy
Fotografia di Gianni Cipriano

Parte 8 dell’inchiesta Ghost Boat (parti 12345678 • 9 )

Partecipanti a una manifestazione in Morocco, nella posizione in cui fu trovato il corpo senza vita del bimbo siriano di tre anni Alan Kurdi, annegato durante la traversata in mare.

Quando ho parlato per la prima volta con Yafet Isaias dieci mesi fa, si sentiva frustrato, arrabbiato, abbandonato. La moglie Segen e la figlia di due anni Abi erano scomparse da più di sei mesi, insieme ad altri 241 profughi che avrebbero dovuto essere a bordo di un barcone diretto dalla Libia all’Italia.

Quello che Yafet mi ha raccontato quel giorno è stato l’inizio del progetto Ghost Boat, la nostra ricerca della “barca fantasma”.

Yafet vedeva in altre tragedie globali un’eco della sua situazione – ma anche una differenza. Altri terribili incidenti e casi di persone scomparse avevano attirato un’enorme attenzione da parte dei media, suscitando la solidarietà e il sostegno dell’opinione pubblica. E in molti di questi casi c’erano stati notevoli sforzi internazionali per indagare sull’accaduto.

Nell’aprile 2014, per esempio, 276 ragazze nigeriane erano state rapite dalle milizie islamiste di Boko Haram. Le ragazze erano cristiane e man mano che emergevano nei media i resoconti delle conversioni e dei matrimoni forzati e degli stupri a cui erano state sottoposte, l’attenzione internazionale cresceva e tutto il mondo si mobilitava con la campagna #bringbackourgirls, con il sostegno di personalità di spicco come Michelle Obama e Oprah.

Le star del cinema con i poster “Bring back our girls” al festival di Cannes. (Foto di Getty)

Più di recente, lo scorso ottobre, la nave mercantile “El Faro” battente bandiera statunitense è scomparsa con a bordo i 33 membri dell’equipaggio durante un uragano nei pressi delle Bahamas. Uno sforzo di ricerca guidato dalla Marina degli Stati Uniti ha individuato a quasi tre miglia sotto la superficie del mare il presunto relitto della nave. Le famiglie dei membri dell’equipaggio sperano che l’identificazione di ciò che resta possa finalmente offrire una risposta conclusiva, dopo mesi di attesa in un limbo.

Per Yafet, è stato un altro incidente a toccarlo ancora più da vicino.

La scultura di sabbia realizzata dall’artista indiano Sudersan Pattnaik a sostegno dell’appello per liberare le ragazze rapite in Nigeria. (Foto di Getty)

Solo quattro mesi prima che i 243 passeggeri della “barca fantasma” svanissero nel nulla, il volo 370 della Malaysia Airlines era scomparso sopra l’Oceano Indiano con 239 persone a bordo. Nel nostro primo colloquio, Yafet aveva fatto riferimento proprio a questa vicenda, perché vedeva notevoli paralleli tra i due casi: il numero dei dispersi; il mistero sui dettagli della loro scomparsa; il tormento delle famiglie lasciate senza risposte.

La scomparsa del volo MH370 era stata da subito al centro dell’attenzione dei media di tutto il pianeta – e ha continuato a esserlo per mesi, fino ad oggi. La copertura mediatica negli Stati Uniti è stata così intensa da suscitare critiche ai maggiori network televisivi, la CNN in particolare, per la loro cronaca ossessiva 24 ore su 24 sulla vicenda.

La scomparsa della “barca fantasma”, invece, è stata quasi completamente ignorata. Sebbene il caso fosse già noto alle autorità italiane che stavano indagando sui trafficanti coinvolti, ci è voluto più di un mese prima che la stampa se ne occupasse. E anche dopo, i pochi articoli pubblicati sulla vicenda erano incentrati sulle indagini per arrestare i vari membri del giro di trafficanti gestito da Jamal Al-Saudi, non sulla sorte della barca scomparsa nel Mediterraneo. Anzi, gli articoli continuavano a ripetere come dato di fatto – e senza alcuna prova – l’ipotesi del naufragio della barca, anche dopo che i parenti dei dispersi avevano contattato quelle testate giornalistiche chiedendo di evitare affermazioni non ancora corroborate dai fatti.

La disparità tra il caso del volo MH370 e quello della “barca fantasma” addolora Yafet.

“Moltissimi paesi di tutto il mondo si erano impegnati per scoprire cosa fosse successo a quel volo”, mi aveva detto Yafet agli inizi della nostra inchiesta. “Nel nostro caso, invece, niente... forse perché siamo neri? Non lo so, non so perché. È davvero difficile”.

La scultura di sabbia realizzata dall’artista indiano Sudersan Pattnaik con un invito a pregare per i dispersi del volo MH370 della Malaysia Airlines. (Foto di Getty)

Da quando la nostra inchiesta si è imbattuta in un ostacolo che ne ha rallentato il corso, anch’io mi sono posto la stessa domanda di Yafet.

Perché al mondo importa molto di più la sorte di 239 persone scomparse su un aereo, che quella di 243 persone scomparse su un barcone di profughi? Perché la responsabilità di scoprire cosa sia successo a quei profughi dispersi è ricaduta su un piccolo team di giornalisti che chiedono l’aiuto del pubblico? Chi avrebbe dovuto avere la responsabilità di condurre questa indagine? Forse i due casi sono equivalenti solo in teoria.

"È esattamente lo stesso tipo di mistero”, dice Christine Negroni, una giornalista investigativa che sta scrivendo un libro sul volo MH370. “Ma il fatto è che esiste un interesse particolare per qualsiasi cosa abbia a che fare con gli aerei e con la gente che viaggia in aereo”.

E non è solo perché ci sono molti appassionati di aviazione come hobby. Le persone che viaggiano in aereo sono in genere benestanti – almeno, abbastanza da potersi permettere il biglietto – e hanno i requisiti legali per imbarcarsi su un volo e attraversare le frontiere internazionali. Non sono in fuga dall’oppressione, dalla guerra, dalla violenza, dalla disperazione. Volano per lavoro o per turismo, sono consumatori con potere di acquisto, il target delle campagne pubblicitarie sui media. Tra di loro ci sono anche i politici e le personalità influenti che dettano i termini del dibattito mediatico. E se vivete in Occidente, o in qualsiasi nazione industrializzata, tra di loro ci siete anche voi lettori.

Tutto questo rende molto più facile immedesimarsi e immaginarsi di andare in aeroporto e imbarcarsi su un aereo di linea che poi scompare nel nulla, rispetto all’idea di salire su un barcone affollato per una traversata in mare organizzata per vie illegali da trafficanti.

“È questo che separa i passeggeri di un aereo di linea dagli Yafet del mondo, da chi non dispone di risorse, chi non ha potere, chi vive in condizioni disperate sotto regimi oppressivi”, dice Christine Negroni. “Il fatto è questo... non tutte le vite umane hanno la stessa importanza nel far presa sull’opinione pubblica”.

Per suscitare empatia ci vogliono momenti straordinari che fanno colpo e richiamano la nostra attenzione oltre la quotidianità – come l’immagine del corpo senza vita del bambino siriano di tre anni Alan Kurdi spinto a riva su una spiaggia turca. Quella foto ha sfondato le barriere mentali che ci isolano dalla crisi dei profughi, presentando al mondo qualcosa che chiunque può comprendere. Tutti possono relazionarsi all’idea dell’infanzia. Vedere un’immagine così forte di una vita stroncata a quell’età pone questioni che tutti possiamo comprendere, in ogni parte del mondo.

Ma Alan Kurdi è stato un’eccezione. Perché, in generale, le immagini che abbiamo dei profughi e delle loro vite ci fanno sentire le loro esperienze così lontane dalle nostre? Non sono sicuro di avere una risposta definitiva.

Questa disparità è stata già notata da molti e si è diffusa la volontà di reagire alla mancanza di empatia nei media. L’iniziativa 19 Million Project – che prende il suo nome dal numero di persone che sono diventate profughi negli ultimi anni – è stata concepita proprio allo scopo di promuovere una copertura mediatica migliore e più umana della crisi. Reportage come A Thousand Miles in Their Shoes di The Huffington Post e Life on Hold di Al Jazeera sono approcci innovativi che tentano di andare oltre le immagini superficiali che generano un senso di distacco nell’opinione pubblica.

Il reportage Displaced del New York Times si è spinto ancora oltre verso un approccio più approfondito, con una presentazione che usa una realtà virtuale immersiva per mettere letteralmente il pubblico nei panni dei bambini che hanno perso la loro casa per colpa della guerra.

Allo stesso tempo, anche la crescente attenzione dedicata ai percorsi di viaggio dei profughi che entrano in Europa – e, di conseguenza, ai conflitti da cui stanno fuggendo – ha portato ad alcune importanti campagne sui social media. Nel Regno Unito, l’hashtag #refugeeswelcome è stato ripreso da personaggi famosi, politici e migliaia di cittadini. L’obiettivo della campagna era fare pressione su David Cameron per accogliere più profughi nel Regno Unito, visti i numeri sempre crescenti di persone che attraversano le frontiere europee in cerca di asilo.

Ma è giusto che sia l’attenzione del pubblico a fare la differenza quando si tratta di organizzare la ricerca di dispersi? Non dovrebbe esserci una responsabilità legale e un sostegno delle istituzioni alle ricerche in casi come quello della “barca fantasma”, a prescindere dalla copertura mediatica?

L’attenzione della stampa si era concentrata in modo massiccio sull’immagine straziante di Alan Kurdi (Foto di Getty)

Per avviare operazioni di ricerca e recupero bisogna avere sia la volontà politica che le risorse. Lo spiega Steve Saint Amour, esperto di ricerca e recupero in acque profonde e amministratore delegato di Eclipse Group, un gruppo che si descrive come “fornitore di servizi per operazioni in mare”. È il tipo di società che viene ingaggiata per la ricerca di dispersi dopo incidenti aerei e in mare.

Di solito, spiega Saint Amour, questi sforzi vengono avviati dai governi nazionali interessati a scoprire cosa è successo. A volte invece sono finanziati da individui direttamente coinvolti che dispongono delle risorse economiche per farlo. Un esempio che cita è quello di un piccolo aereo privato che si è schiantato poco tempo fa nei Caraibi: i parenti dei due passeggeri a bordo avevano i mezzi per finanziare un’operazione di ricerca, che ha portato al recupero del relitto e dei corpi.

Nella maggior parte dei casi, però, si avviano operazioni di ricerca e recupero solo per gli incidenti più notevoli, perché non si tratta solo di dare risposte alle famiglie dei dispersi. Trovare un aereo o una nave svaniti nel nulla e indagare sulle cause della scomparsa fornirà informazioni su cosa è andato storto – e sono informazioni utili che potranno essere incorporate in standard di sicurezza migliori e migliori pratiche.

Nel caso del volo MH370, 26 paesi in tutto – tra cui Malesia, Australia, Cina, Stati Uniti e Regno Unito – hanno contribuito con le proprie risorse alla ricerca. Ognuno di quei paesi aveva un suo interesse nazionale a contribuire: o la presenza di propri cittadini tra i dispersi, o il coinvolgimento del proprio territorio nazionale nell’area di ricerca.

Lo scorso marzo, lo sforzo internazionale aveva già raggiunto secondo le stime un costo di circa 100 milioni di dollari. È l’operazione di ricerca e recupero più vasta e più costosa della storia – eppure non ha ancora trovato una risposta definitiva a quello che è successo. Finora, l’unica scoperta concreta è stata un frammento di ala recuperato in luglio, dopo dieci mesi di perlustrazione dell’oceano.

A prima vista, la logistica di operazioni di questo tipo è scoraggiante. Se persino uno sforzo di portata globale con il sostegno di molti paesi e un notevole investimento finanziario può andare avanti per così tanto tempo senza arrivare a risposta, che speranze ci sono di arrivare alla verità per un piccolo team come il nostro?

Per fortuna ci sono diversi fattori che dovrebbero rendere più facile la ricerca della “barca fantasma”. L’area di ricerca iniziale per il volo MH370 era di 1,8 milioni di miglia quadrate, circa il doppio della dimensione dell’intero Mediterraneo. E la zona in cui si pensa che sia scomparso l’aereo è remota e non molto trafficata – non si trova sulle consuete rotte aeree.

La ricerca del volo MH370 è stata influenzata anche da contrasti e interessi particolari. Le operazioni di ricerca e recupero sono un affare, non una questione di altruismo, spiega Christine Negroni. Molti fanno affari con queste operazioni e hanno tutto l’interesse a condurle nel modo più costoso invece che nel modo che potrebbe dare il miglior risultato.

Nel caso della “barca fantasma”, se è davvero scomparsa – ossia, se i passeggeri sono davvero riusciti a raggiungere la costa e imbarcarsi – la zona interessata è molto più piccola, ed è un’area di mare altamente trafficata, vicino alle coste di quattro paesi. Era l’area coperta dalla missione italiana di ricerca e soccorso, Mare Nostrum. Inoltre, la Guardia Costiera libica pattuglia regolarmente le acque vicino alle coste libiche. Se la barca è davvero affondata, quindi, dovrebbe essere possibile scoprirlo. Anche allargando il più possibile l’area di ricerca, si tratta in ogni caso di una superficie inferiore alle 20.000 miglia quadrate.

Se le dimensioni della ricerca sono dalla nostra parte, però, ci sono altri ostacoli più difficili da superare per trovare le risposte.

Uno di questi ostacoli, forse il più significativo, è il costo delle operazioni di ricerca e recupero: anche quelle di dimensioni minori richiedono infatti notevoli investimenti. Un solo peschereccio con il relativo equipaggio e le attrezzature per condurre una ricerca in mare può costare 10.000 dollari al giorno, se non di più – e la ricerca anche in una piccola area può richiedere settimane o mesi. Ciò significa che i casi di dispersi in mare vengono spesso ignorati semplicemente perché il costo delle ricerche è proibitivo.

“Tutti vogliono scoprire cosa sia successo, ma nessuno vuole pagare”, dice Saint Amour.

Come team di giornalisti, non disponiamo certo delle risorse – in termini di dati radar, immagini satellitari e fondi – di un governo nazionale, tantomeno di quelle di un pool di 26 paesi diversi. E questo senza contare che nessun governo ha interesse a condurre la ricerca che abbiamo intrapreso.

Eric Reidy in Sicilia. (Foto di Gianni Cipriano)

“Nel caso della ‘barca fantasma’, di fatto i dispersi sono apolidi”, spiega Saint Amour. “Quale paese ha un interesse nazionale a scoprire cosa è successo a quelle persone?”

La maggior parte dei profughi che stiamo cercando erano in fuga dall’Eritrea, uno stato che impone alla sua popolazione il servizio militare a tempo indeterminato – quello che le Nazioni Unite classificano come lavoro forzato. Il governo eritreo non mostra certo di preoccuparsi del benessere dei cittadini che vivono nei suoi confini, figuriamoci di quelli che fuggono. La Libia, l’ultimo paese confermato di transito per i passeggeri della barca scomparsa, è devastata da una disastrosa guerra civile che ha frammentato il paese mettendo praticamente fuori uso le istituzioni statali.

Gli investigatori italiani che avevano appreso del caso durante le loro indagini sul giro di trafficanti in questione ci hanno detto che senza partner istituzionali in Libia non avevano modo di verificare nemmeno se la barca fosse realmente esistita o se avesse raggiunto un’area sotto la giurisdizione di Mare Nostrum. Avevano poche informazioni per avviare un’indagine e nessun incentivo politico a farlo.

È per tutti questi motivi che il compito di capire cosa sia successo è lasciato a noi – e anche a voi lettori: perché nessun governo vuole assumersi la responsabilità, perché nessuno ha i soldi, perché solo ora i media stanno iniziando ad occuparsi di questo caso e a raccontare le storie dei profughi in modi più immediati e comprensibili anche per la gente che viaggia comodamente in aereo – e che non finirà mai su traballanti barconi affollati nel disperato tentativo di raggiungere la sicurezza e una vita migliore.

Non ho una risposta definitiva alla domanda di Yafet sul perché il mondo non si prende a cuore la scomparsa di sua moglie e di sua figlia con la stessa partecipazione che riserva ad altre tragedie.

Credo però che c’entri qualcosa anche la razza, o anche il divario tra le parti del mondo in cui storie come questa sono più prevedibili e scontate – e quindi normali – rispetto alle zone dove non lo sono. E forse c’entra anche il fatto che la scomparsa della “barca fantasma” non rientra nei casi che attirano automaticamente l’attenzione del pubblico occidentale: aerei, terrorismo islamico, turisti innocenti, disastri naturali. Nonostante tutto questo, però, c’è ancora gente che si è presa a cuore la vicenda e insieme ci stiamo avvicinando a una risposta al mistero.

Il cimitero delle barche nel sud della Sicilia. (Foto di Gianni Cipriano)

Abbiamo fatto molti progressi dall’avvio della nostra inchiesta lo scorso ottobre e ora abbiamo circoscritto le ipotesi sull’accaduto a due teorie.

La prima ipotesi è che sia successo qualcosa ai dispersi nelle prime ore del 28 giugno 2014, al di fuori di Tripoli, dopo aver lasciato la fattoria dove erano detenuti. Qualcosa che ha impedito loro di raggiungere la costa e mettersi in contatto con le proprie famiglie per un anno e mezzo. Forse sono stati rapiti per essere costretti al lavoro forzato, o rapiti da un gruppo di militanti islamici? O forse venduti come schiavi? O detenuti in una prigione senza contatti con il mondo esterno per più di un anno?

(Foto di Gianni Cipriano)

La seconda ipotesi è che i passeggeri abbiano raggiunto la costa e si siano imbarcati per poi naufragare in alto mare. In questo caso, tutti i 243 dispersi sarebbero annegati. Non c’è stata nessuna chiamata di soccorso da un telefono satellitare. Non sono mai stati ritrovati in mare o a riva corpi o relitti collegati a un naufragio di questa portata. E allora, dove sono le prove di questa ipotesi?

Man mano che andavamo sempre più a fondo della questione con la nostra inchiesta, il nostro lavoro giornalistico ha avuto dei rallentamenti. L’intervista con Measho – uno dei pochi che potrebbero avere altre informazioni utili per aiutarci a indirizzare meglio la ricerca – è ancora in sospeso: dovremo aspettare almeno un’altra settimana per parlare con lui.

Nel frattempo, dobbiamo anche affrontare le difficoltà di organizzare il lavoro sul campo in Libia. È lì che si trovano le risposte a molte domande ancora aperte – se mai sarà possibile trovarle. Stiamo facendo progressi, ma data la situazione in Libia non ci potremo muovere al ritmo che ci eravamo prefissati all’inizio dell’inchiesta.

Per quasi due mesi, abbiamo prodotto un articolo ogni settimana sul nostro lavoro di ricerca. Ora, è chiaro che dovremo fare un passo indietro e interrompere per il momento la pubblicazione, per dedicarci a preparare il materiale che (si spera) ci potrà dare qualche risposta – e soprattutto la potrà dare a Yafet e agli altri parenti dei dispersi.

Abbiamo deciso quindi di sospendere la pubblicazione di nuove puntate dell’inchiesta fino a quando non avremo un quadro più completo.

Ma la ricerca continua e continueremo a indagare, a condividere altre prove e a parlare di questo caso, mandando avanti il nostro lavoro anche in attesa di poter scrivere nuovi episodi.

La versione originale inglese di questo articolo è stata scritta da Eric Reidy e curata da Bobbie Johnson e Rachel Glickhouse. Direzione artistica di Noah Rabinowitz. Fotografia originale di Gianni Cipriano per Medium.

Potete aiutarci anche voi a scoprire la verità.

Vi chiediamo di fare un passo in più dopo la lettura di questa storia: vi invitiamo a collaborare come potete alla nostra inchiesta. Al momento, stiamo organizzando una ricerca di immagini satellitari dell’area interessata e ci stiamo preparando a intervistare uno dei trafficanti coinvolti.

Leggi anche le parti precedenti (1234567) dell’inchiesta del team di GhostBoat e scopri come collaborare.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia