L’epoca delle
passioni tristi

--

Se c’è una cosa che accomuna il vicino occidente al lontano Giappone, è che entrambi abbiamo vissuto in epoche molto vicine il mutamento di segno del futuro, il passaggio dal futuro-promessa al futuro-minaccia.
Nella convinzione che la storia dei nostri paesi e dell’umanità intera fosse inevitabilmente una storia di progresso, le nostre culture si sono costituite a partire da una visione del futuro carica di promesse messianiche. Siamo passati dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore di sé stesso e della storia al mito speculare della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo.

Utilizzando una formula presa in prestito da Spinoza, viviamo in un’epoca dominata dalle passioni tristi,

esperienze di rapporti d’esteriorità che diminuiscono la nostra potenza di agire, cioè che bloccano, contrastano, limitano la sfera dei nostri rapporti intensivi.

Esse non si identificano come una tristezza generica di dolore o pianto, ma alludono a un depotenziamento dell’individuo, alla sua disgregazione, condotta dal timore di un futuro minaccioso.

La percezione della crisi si manifesta, dati i retaggi culturali, in modalità differenti, ma allo stesso tempo incredibilmente simili.
L’adultescente non differisce dal parasite single, il giovane che passa ore ed ore su internet a costruire la propria identità virtuale non è diverso dall’otaku, il disorientamento provato dai genitori e dagli adulti in generale è simile, l’adolescenza prolungata si manifesta in entrambe le società, il mercato è pronto ad approfittarne in ogni luogo, si tende a formattare l’individuo mediante il ricorso alle etichette, la paura prende campo ovunque, la tentazione è quella di aderire alla cultura della terapia, di tentare la salvezza solo per sé stessi mentre tutto intorno affonda.

La fede nel progresso illimitato è stata sostituita da un futuro cupo, plumbeo, dalle certezze false e logore, in cui tutto deve servire a qualcosa, una dimensione utilitaristica e cosificante, che strumentalizza ogni idea, relazione, situazione, persona, sentimento.

Hobbes affermava che la natura umana è fondamentalmente egoistica: a determinare le azioni umane sono l’istinto di sopravvivenza e di sopraffazione. Egli negava che l’uomo potesse sentirsi spinto ad avvicinarsi ai suoi simili in virtù di un amore naturale; se gli uomini si legano tra di loro in amicizie o società, regolando i loro rapporti con accordi e leggi, questo è dovuto soltanto al timore reciproco. Tanto che in un ipotetico stato primordiale di natura, privo di ogni forma di istituzione, gli uomini tenderebbero all’anarchia, al bellum omnium contra omnes, alla guerra di tutti contro tutti, in cui homo homini lupus, ogni uomo è lupo per gli altri uomini, e che di conseguenza l’auspicabile è che essi deputino un unico soggetto, il sovrano, a rappresentarli, per impedire al singolo di esercitare il proprio potere a danno degli altri.

Spinoza rispondeva con una visione antitetica, secondo la quale “nulla è più utile all’uomo che l’uomo stesso”, e la socialità deve essere considerata come la maggiore possibilità di sviluppo. Solo vivendo in società gli uomini cambiano. Rinchiudersi in sé stessi, vivere un’esistenza solitaria, pensare che non valga la pena di sforzarsi a vivere in comunità, avere paura, reagire con l’isolamento o la misantropia non sono di nessun aiuto.

Allo stesso modo non lo è la cieca speranza e l’idea che gli uomini possano modificarsi radicalmente: sia la paura che la speranza sono due passioni di incertezza e di attesa, la prima del male, la seconda del bene, e non è nell’attesa che si muove il cambiamento. Solo quando gli individui sono capaci di agire collegialmente, crescendo nella loro influenza reciproca, possono modificare le loro posizioni di volta in volta e progredire, migliorare.

La paura deprime le energie umane, affligge lo sviluppo e favorisce il potere di chi tiene in soggezione la forza di vivere altrui.

Privando una persona dello spazio e del tempo del possibile, del sogno, degli scenari aperti, proiettandola in una realtà timorosa, opaca, appiattita, diffusa, pervasiva, grigia e brutalmente ovvia, contro la quale non vi è alcuna possibilità di redenzione e riscatto, è come se si sancisse la normalità della reazione dell’hikikomori, dell’adolescente che non vuole crescere, dell’adulto che rimane nella fase di latenza adolescenziale e si rifiuta di approdare alla maturità: è una tacita approvazione del non-essere.

Non si tratta di aderire di nuovo ad una visione del “tutto possibile”, ma di restituire slancio al futuro.

La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescano ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano.

In Paura liquida Zygmunt Bauman prova a stilare una conclusione provvisoria “per chi si chieda che fare”:

la via che porta dall’individuazione delle radici del problema e conduce al loro sradicamento è lunga e tortuosa, e compiere il primo passo non assicura affatto che quella via venga percorsa fino in fondo. Eppure non si può negare l’importanza cruciale di iniziare: di mettere a nudo la complessa rete di nessi causali tra i dolori individuali e le condizioni prodotte collettivamente.

--

--

Giada Farrah Fowler
KYNODONTAS / ADOLESCENZA SENZA USCITA

Opinion leader, socia Aci, trascrittrice braille, testimone oculare, insegnante di cockney. Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.